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Storie di lagunari

- Dino Doveri -

parte 03

  
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Lagunare Dino Doveri

Villa Vicentina 2° contingente 1966

Sezione di Jesolo

e-mail: ddoveri@associazionelagunari.it

Archivio Fotografico di Dino Doveri

  
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Subject: 11ª puntata "Racconti di naja".
Data: Gio, 22 Lug 2004

Il bello è che l’avevo già scritta ed archiviata in apposito “file”, ma la maledetta sfortuna ha voluto che montassi un nuovo disco fisso di supporto memoria, che non ha memorizzato una bel niente. Puntata già scritta, scomparsa: misteri dell’elettronica!

E dato che avevo accentrato la puntata precedente su Villa Vicentina, la faccenda prosegue su quanto avevo già preparato e perduto.

Ed avviene finalmente che si possa uscire in libera uscita! Prima però, altra esperienza sconosciuta,fu il rientro in famiglia in licenza di trentasei o quarantotto ore; di spostamento in auto non se ne parlava nemmeno; primo perché il possesso di una pur se sgangheratissima seicento, manco era prevista per l’immediato futuro, secondo, affrontare l’autostop mi metteva a disagio perché detta pratica avrebbe potuto rivelarsi pericolosa ed infatti c’erano Lagunari che giuravano di essersi presi alcuni giorni di punizione per aver commesso il fatto. Infatti era previsto dal regolamento, che l’autostop fosse tassativamente vietato per il militare ed in particolare per il Lagunare, datosi che il Ten. Di Benedetto detto Kriminal, tra gli altri passatempi, aveva preso la sana abitudine di andarsi a fare qualche giretto in “campagnola”per beccare sul fatto gli sprovveduti viaggiatori a sbaffo, vale a dire, “scuajar i Lagunari turisti”. Opto per il caro e  classico treno che mi porta dalla Stazione di Villa Vicentina, (cambio,mi sembra a Cervignano), pian pianino sino a quella di San Donà di Piave ove li si poteva arrischiare l’autostop sino a casa.

Come prevedevo l’arrivo al paesello, m’ispirava che mica potevo arrivare li come un semplice marmittone canoa maledetta ed ultra marcia; allora m’invento di attaccare al volantino da spalla, (ricavato dalla parte più larga di una cravatta in disuso), dove il bel scudetto in panno raffigurante un mortaio stilizzato faceva bella mostra di se, un freggetto che il mio “vecchio” mi aveva regalato, (era un fregio da basco in filo giallo sovrapposto ad una basetta in panno viola, molto visibile, con accostamenti di colore indovinati e stupite, stupite, il tutto si può ancora ammirare quando indosso l’attuale divisa associativa).

Dissanguo le mie inesistenti finanze, nell’acquisto di un bel cordone da spalla giallo-rosso al negozietto d’articoli militari vicino al passaggio a livello delle caserme; so che è una cosa riservata ai comandanti di plotone, (in quel periodo comunque, lo portavano tutti, dai caporali in su), ma mi dicono che quando sarò “nono” o “vecio” qual dir si voglia, sarebbe stato mia prerogativa esibire tale orpello e che quindi era una spesa che avrei fatto poco dopo.

Quel bel cordone da spalla giallo-rosso, effettivamente riconduceva le origini del Btg. Anf. “Isonzo” con il Btg.San Marco, colori i quali erano mutuati qualche anno prima dai Marò poi confluiti da noi; per inciso ricordo a proposito di cordoni da spalla,che il “Marghera” l’aveva blu, il “Piave” ce l’aveva color amaranto-bordeaux, noi dell’Isonzo, come dicevo, giallo rosso e quando, appena dopo il CAR, arrivai nei Lagunari alla Pepe, notai che al Comando di Reggimento avevano il cordone con tutti i colori sopra segnalati e rappresentanti l’insieme di tutti i Battaglioni di competenza, per cui alla Pepe il cordone era giallo-rosso-blu-amaranto.

Siccome non mi avrebbero fatto andar fuori dalla caserma così accessoriato, attendo di salire in treno, mi apparto nei servizi, estraggo dal sacco a spalla, tutti ‘sti addobbi, li indosso e me ne esco con indifferenza. Così agghindato, mi sento pronto ad affrontare il rientro al paesello: bascaccio alla Marò,occhiali scuri da sole, (ai tempi, in divisa, come da regolamento, non si poteva portarli), il bel Mao smaltato sul taschino sinistro della camicia, cordone di un sfavillante giallo-rosso alla spalla sinistra, camicia e pantaloni stirati alla perfezione, cravattina in lana a punto largo rigorosamente fuori ordinanza, purtroppo ancora con gli scarponcini da libera uscita, bruttissimi, ma lucidati a specchio.

Arrivo, giro di quà e di la, mi vedono, capisco che stanno pensando, ”guarda un po’ il Dino, in divisa sta’ bene e poi guarda quanti ammennicoli ci ha su; si vede che ha qualche incarico particolare o lo hanno messo in qualche reparto speciale…..prima di partire dava l’impressione di un “tegolina”, si vede che nella naja ha maturato….”. Insomma, il rientro è positivo: dormo più che posso, mangio come un allupato, passo ore in doccia, poi via al bar con gli amici, (i pochi che non sono pure loro a far la naja), a raccontare avventure mezze vere e mezze inventate lì al momento, che i Berretti Verdi yankees di hollywoodiana memoria erano una scamorzetta in confronto.

La sera del sabato è dedicata allo sport che più interessa un giovane di ventenni, (e che diamine! abito a Jesolo ed il materiale connesso è in sovrabbondanza), rientro a casa tardissimo: le due o le tre! (Sic!). Riempio di biancheria pulita il sacco a spalla fino quasi a farlo scoppiare e ci caccio pure dentro un paio di scarpe nere da metter quando lo potrò, quindi me ne ritorno alla dura vita di noi vecchie pellacce Lagunari.Tiè!

Rientro a Villa Triste la Domenica sera: da San Donà a Cervignano e da lì con il taxi a Villa per il contrappello che becco sempre al volo ma riesco ad essere puntualissimo come un orologio svizzero. Villa Triste……. Mai aggettivo fu affibbiato più propriamente.

Il Gianni ed il Dario mi fanno scoprire il posto: fuori della caserma giù a sinistra per il viale alberato che passava davanti alla “Nembo” ed al “Genio”, verso il centro, si fa per dire, del paese; oltrepassiamo il passaggio a livello, ancora qualche centinaio di metri e arriviamo.

E’ il classico paesetto friulano con la strada principale che taglia in due un abitato ai minimi termini; un po’ di case di quà, un po’ di case di là.

Militari a nugoli che vanno di buon passo chissà dove, qualche gatto che indolente attraversa la strada, un cane che dal cortile affidatogli, quando passi, ti abbaia contro, un trattore sbuffante con carro che trasporta vegetali varii, gente per strada, zero, ragazze, hi….hi….manco dipinte sul muro…Una magnificenza! Un paio di bar, il tabaccaio, l’edicola, un cinemino striminzito, due tre negozi e altro non c’era, degno di nota.

Messo il tutto a confronto con Mestre ed addirittura con Marghera che propriamente ,con le sue ciminiere e i suoi petrolchimicim, proprio bella non era,Villa Triste appariva ai miei occhi di ventenne come uno sperduto avamposto sul Deserto dei Tartari.

I miei Amiconi ammettono che il sito rimane quanto mai, adesso potremmo dire “ameno”, ma allora lo definimmo categoricamente, un mortorio!

Gli stessi mi prospettano però, per la prossima libera uscita, una visita a Cervignano del Friuli che è li a pochi chilometri; mi favoleggiano di cittadina bella corposa,negozi con commesse d’abbordare, un paio di cinema, diversi ristoranti e pizzerie, gente che va e che viene dalle loro cose affaccendati, qualche sala da ballo e mi dicono ci siano pure le signore mercenarie dell’amore a pagamento. Quindi c’è vita! Vedremo.

La libera uscita ha lo scopo primario di riempir le pance, poi tutto il resto. Ovviamente,vista la qualità della cucina della A. Bafile, la fame come sempre, incombeva  implacabilmente. Gli amici mi instradano a quella che sembra una casa privata; esito perché non voglio aver a che fare con case private, invece loro insistono e scopro che dentro vi è una specie di piccolo ristorante: un barettino incastrato nel sottoscala, una toilette, tre stanze adibite a salette da pranzo, la cucina dalla quale escono effluvi invitanti, evidentemente piazzata nella stanza adibita in origine alla bisogna.

Servono in tavola due quarantenni tirate a lucido e noi galletti di prima penna ad indugiar lo sguardo sulle rotondità del fondoschiena e sghignazzare da coglioncelli imberbi. A proposito di imberbi:per uscire il libera uscita bisognava farsi la barba.Barba….si fa per dire…..cinquantatre peli non meglio identificati che costituivano allora, l’onor del mento. Ciò non di meno, per passare indenni l’ispezione-libera uscita, comunque questi sporadici e disordinati peli andavano pur rasati! La prima esperienza seria di rasatura avviene una mezz’oretta prima della libera uscita, dabbasso nei cessi, acqua rigorosamente fredda, schiuma da barba Palmolive bomboletta rossa presa allo spaccio, usa e getta Bic e via verso lo scorticamento più cruento della mia vita:sangue a fiotti,una faccia come un pomodoro maturo. Arrivano i consigli di chi la barba ce l’aveva da qualche anno e dura e copiosa:mai farsi la barba di sera! E’ preferibile la mattina, ma siccome la mattina già era fatica alzarci dalla branda per tempo, irrimediabilmente tutti la facevano alla sera prima d’uscire; rimedio miracoloso veniva prospettato dal dopobarba “Mennen”, pure esso disponibile allo spaccio. La prima volta che me lo aspergo sul viso dopo la rasatura, mi piglia un colpo per la sensazione di acuto bruciore che mi pervade la pelle; lacrimo copiosamente e impreco il dio dei dopobarba, poi passato l’impatto, sento sul viso una estasiante freschezza… Da quella volta, la bomboletta rossa  di schiuma Palmolive e la bottiglietta verde smeraldo del “Mennen” non hanno più abbandonato il mio corredo da barba.

Tornando allo pseudo ristorante mi scopro perplesso sulla validità del luogo; Dario e Gianni mi consigliano lasagne al ragù, una bella bistecca alla Bismark,(non avevo ai tempi, la più pallida idea di cosa fosse), patatine fritte, dell’ottimo rosso della casa e alla via così.

Troneggia in mezzo al tavolo un cesto da mezzo chilo di buon pane “furlan”;  scomparirà tutto prima che arrivino le portate. Quando arrivano noto che trattasi di porzioni extra-abbondanti; mi concentro: una delizia! Le lasagne altresì “pasticcio al ragout di carne”, volano via in poche forchettate e ho l’impressione di veder balenare l’apparizione di fantozziana memoria, della Beata Vergine di Compostela, talmente sono paradisiache.

La bistecca alla Bismark è una piacevole scoperta: tenera e friabile in bocca, due bei ovoni la celano all’occhio ingordo ed indagatore, il connubio dei gusti, carne e sopra uovo fritto, solleticano e mandano in visibilio le papille gustative; è un trionfo della soddisfazione epigastrica!

Che mangiata ragazzi….e che fame pregressa! Concludiamo il tutto con caffè e “sgnape” e ci alziamo dal tavolo molto più ben disposti con l’avverso mondo, che prima d’essere entrati. Spesa modestissima  e risultati eccellenti e quindi il rapporto qualità-prezzo,equilibrato(come s’usa dire oggi negli ambienti del moderno marketing). Ci viene in mente di andare al cinema: è piccolo, pieno zeppo di “canoe”. L’aria è elettrica perché evidentemente c’è del ruvido tra le parti: gli idiomi tradiscono origini prettamente meridionali, le tipologie pure: gente piccolina, scura di carnagione, ricci e mori, grandi baschi color cachi a mo’ di “tecia”, (padella), camicie e pantaloni o troppo grandi o troppo stretti, scarponacci della seconda guerra mondiale, fumo di sigaretta tanto denso che lo tagli con il coltello ma che però non mascherava gli effluvi causati dalla scarsa confidenza con le docce, (ai tempi,la doccia era un lusso….anche nei Lagunari), insomma un bell’ambientino. Capisco subito che il territorio viene considerato per tacito accordo,come “neutrale”: gli uni ignorano gli altri, qualche battuta stronza di quà e di la,ma alla fine tutti e tre gli appartenenti alle tre diverse parrocchie militari,convivono.

Ci si gode il film, una cazzata con Ciccio e Franco, si va fuori evitando qualche pretestuoso aggancio informale alla rissa, si fa tappa ancora all’osteria, una ulteriore e rafforzante “sgnape” e poi facendo attenzione a salutar per benino la guardia in garritta dalle Canoe, ci si appropinqua alla nostra caserma.

L’idea in effetti,era quella di rompere un po’ i “pendenti” alla guardia delle canoe, come loro facevano con noi, ma visto che alle porte delle suddette caserme,si intravedevano stellette dorate, ci ripromettemmo d’inventare qualche cosa la prossima volta.

E che ce ne torniamo in branda subito? Non sia mai!

Si favoleggia di tal pezzo di gnocca al banco del “Ragno d’Oro”, restaurant di buona levatura qualche centinaio di metri verso Monfalcone dall’incrocio della Triestina. Andiamoci! Si entra e si ordina un ulteriore sciacquabudella; della bionda non v’è traccia! Delusi quanto mai, si disquisisce nel merito talchè  si apprende dai meglio informati, che la tizia, padrona o figlia dei padroni, chi si ricorda più, aveva pure concorso per Miss Italia. Stupefacente e mirabolante. La tizia non si fa vedere e allora ci si appresta ad uscire con le orecchie “a picolòn”, dicono i clodiensi, (ciosoti per il volgo), ma in quel mentre ella appare: indubbiamente un bel esemplare della categoria femminile. Gli ormoni dei nostri vent’anni vanno immediatamente in circolo ed il soggetto si dimostra effettivamente interessante da qualsiasi angolatura fosse presa in esame.   Ma l’ora si fa tarda: via di corsa verso la caserma.

Il Sergente Francioso, Francis per noi, urla che al contrappello si deve arrivare puntuali e che si segna i nomi per l’andar a pulire i cessi l’indomani: ”ma dai…..siamo andati a fare una puntatina al Ragno d’Oro….abbiamo visto la bionda….”. Il Sergente Francis, si blocca repentino come uno spinone alla punta del selvatico, cambia sintonia, l’occhio gli si fa vispo e lucente, il balbettio s’accentua e s’informa con fare complice, ”avete visto che paio di gambe?……Mi ricordo una sera che….” E giù tutti a far capannello attorno al sergente Francis, per farci raccontare della bionda che….quella sera…..

La tabella delle punizioni giace sopra una branda e presto viene dimenticata, nomi scritti sopra non ne appaiono….

Per questa volta basta; la prossima vi racconto di Cervignano e di altri eventi. San Marco!!!

 

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Subject: 12ª puntata "Racconti di naja".
Data: Gio, 25 Nov 2004

“ …et voilà!”, pronta la dodicesima puntata dei racconti di naja del sottoscritto.

Tra scossoni e polemichette, tra contenti e scontenti, tra inerti infastiditi  e attivi bendisposti, andiamo avanti sino alla fine dei racconti di naja di cui alcuni si augurano finiscano presto, altri, i più, seguono con attenzione e favore e sembrerebbe, ci si divertano pure. Incominciano a cadere le foglie gialle dell’autunno del ’66. Gli alberi della A.Bafile di Villa Triste si arrossano e tra poco rimarranno nudi. Verso il tramonto, percorrendo il viale per andare a Villa, si annusa nell’aria, quell’ottobrino sentore classico di bruciato di legna che svela braci nei focolari e griglie in funzione. L’oscurità arriva prima e durante le guardie, l’aria notturna diventa più temperata e qualche sbruffata di venti settentrionali inizia a farsi sentire. Divisa autunnale!

Mai indossata prima (per la verità, una rapida prova al CAR e poi lasciata dormire nello zaino – valigia assieme al paltò e alle famigerate mutande tattiche). In effetti, con preveggenza io, un’aggiustatina l’avevo già effettuata in sartoria al Btg. Anf. “Marghera”, dove il sant’uomo che fungeva da sarto, sistemava con ieratica pazienza le goffe forme degli indumenti militari e che ai tempi non si avvicinavano molto ai canoni delle “creations for fashion”. Con una svelta macchinata il brav’uomo mi aveva pure cucito sui polsini, le inusitate mostrine che solo nella fanteria, i Lagunari portavano in quella posizione appena sopra i polsini.  In Marina, il Btg. San Marco. Altri, che sappia io, non ce n’erano (e non ce no sono).

Cucio con attenzione sulla manica sinistra, uno scudetto nuovo di pacca in panno nero con ricami di sottile filo metallico dorato che riproduce un mortaio stilizzato e la scritta “Mortaista 120”; appongo le stellette metalliche, stringo un po’ i soffietti regolabili in vita, le brache vanno bene così, per cui sperimento la libera uscita con la nuova divisa. Il nero basco, dopo alcuni mesi di sudore e sangue, sole e pioggia, si rimpicciolisce e comincia a calzar corto sulla nuca, datosi che l’ordine era di calcarcelo bene appena sopra le sopraciglia. Il basco non si portava come ora; l’uso era, pur se raccomandati a farlo, di non piegarlo sulla destra. In effetti non essendo il basco, tutto un corpo come adesso ma composto da vari pezzi, il copricapo aveva ad ogni piegata verso l’orecchio destro, la irrimediabile insistenza nel ritornare nella posizione primaria, sicchè anche vecchi marescialli provenienti dal San Marco, fior di vecchi ufficiali, e molti di noi ormai “scafatissimi” Lagunari, s’usava portarlo alla Marò. Mi viene in mente di tentare le scarpe fuori ordinanza che da “tuba” non dovrei ambire, un paio di volte vengo mandato in camerata a rimettermi gli odiati scarponcini neri, ma alla fine, la và. Andiamo a Cervignano. Trenino a caffettiera da Villa a “Savargnan” e sbarchiamo in  cotanta cittadina per l’esplorazione di prammatica.

Alla fine, dopo aver girato di quà e di la, sintetizzo che pure qui non è che sia Las Vegas: ho l’immediato sentore che i residenti, nutrano nei nostri confronti un che d’indifferenza e distacco a malcelata sopportazione.

Militari in tutti i buchi possibili, la gente non fraternizza proprio per niente e penso che se alla fine non fosse per quei quattro “schei” che lasciamo alle casse della pizzeria, ristorante, cinema, balera, molto probabilmente ci guarderebbero con poca cordialità.

Ciò non di meno, mi accorgo che noi Lagunari siamo pur sempre meglio visti e trattati dei colleghi meridionali; rilevo una malcelata “avversione” verso di questi e i piccoli gesti, le occhiate traverse, i mugugni in “furlan”, evidenziano la cosa. Qualche profonda ruggine, immagino, dettasse il comportamento scostante dei locali: molte marachelle perpetrate negli anni ai danni della laboriosa e introversa gente friulana, la differenza di culture opposte, di dialetti sconosciuti, di comportamenti emblematici. Pur tutta via, più di qualche militare, Lagunari e non e cioè le “canoe”, trovarono famiglia da quelle parti. Vai a capire il mondo tu! Di Cervignano, non ho niente da raccontarvi, perché la città non mi impressionò proprio per nulla, fatti particolari non ne avvennero, e segnalo solo che a mio avviso il paio di cinema che c’erano colà, erano un po’ più decenti e moderni della “caponera” di Villa Vicentina. Mi rimangono nella mente a proposito di Cervignano, solo il ricordo dei tragitti in taxi per Villa Vicentina per arrivare in tempo al contrappello, perché trenini locali non v’erano a quell’orario. Stipati nell’ampia  (di allora), Fiat 1800 nera di uno dei due tassisti operanti a Cervignano, quattro seduti dietro più due di traverso a pesce, due sul posto davanti, a botte di otto alla volta più tassista, si percorrevano i pochi chilometri che separavano i due luoghi.

Quasi sempre si rientrava più sull’allegrotto che sull’andantino, essendo ai tempi divenuta una tradizione, eccedere in pertinaci degustazioni della variegata gamma di vini friulani che come tutti sanno, sono tra i più rinomati della produzione mondiale. A parte le finezze lessicali, era quasi una mezza ciucca ogni libera uscita. Altro che no! E d’altro canto, che accidenti potevi fare se non imbucarti in qualche pizzeria di second’ordine e dargli dentro di buona lena? C’era alla Mortai, a parte un tre o quattro alcolizzati soggetti sparsi nelle varie Compagnie, il Mortaista  Cian di Trieste. Pardon, il Conte Cian! Quando era a cottura giusta, cioè quasi sempre, cominciava a raccontarci che la sua mamma, in spensierati tempi di gioventù, era approdata ad un fugace ma quanto mai, vissuto connubio amoroso con il Conte Tal dei Tali, nobile dell’entroterra triestino, ed il colpevole frutto di tale birichino incontro, ebbe a nascere nove mesi dopo e a vent’anni fu chiamato nei Lagunari. Quindi pur se non riconosciuto figlio neanche naturale dal Conte fetente, il nostro Amico nei fumi perduranti dell’alcool, pretendeva il nobiliare “Conte”, a precedere  nome e cognome.

Sempre da solo, rientrava sbronzo disfatto tutte le sere, barcollante ed incerto il passo, l’occhio torbido e semispento e così com’era crollava vestito di divisa e scarpe nella branda e sino mattina era morto; alla sveglia, la prima cosa che faceva appena alzato, si tirava fuori un mezzo litro di rosso militare, chissà da dove recuperato ed imboscato nello zaino, e se lo scolava come colazione. Veniva a mendicare qualche sigaretta qua e là, ne accendeva una e poi già barcollando se ne andava alla cucina dove si era fatto assegnare per essere più vicino alla scorta del vino.

Con quel ritmo, penso che sia già scoppiato di cirrosi epatica galoppante già da alcuni decenni. Tuttavia debbo dire per l’onor del vero, che non rompeva le palle a nessuno, viveva la sua tossicodipendenza con metodo e con una determinazione di auto distruzione che aveva dello sconvolgente, ma… mai lo sentii imbarcarsi in una baruffa o peggio in una scazzottata. Povero Conte Cian….. Di più congruo, come ricordo albergante tutt’ora nella mente, mi giunge mentre batto sui tasti questa pagina, la prima esperienza di guardia alle “polveriere” o più brevemente in gergo lagunare, ai “forti”.

Il momento è di stanca. Oramai del mortaio sappiamo tutto (almeno, quello che supponiamo ci spetti di sapere), si cominciano a ordire le trame per i primi imboscamenti. E’il momento  in cui gli “strissoni” altresì denominati “serpi” o anche “bisse”, danno il meglio di se stessi: leccate ai gradi superiori che avevano del portentoso nella loro untuosità: chi porta da casa vettovaglie e prodotti commercializzati nel negozio di famiglia, chi arriva a  settimane estive pagate nei vicini siti turistici, (molto si favoleggiava in branda prima d’addormentarsi, ma di certo nulla si sapeva, ma si dava per scontato, del torbido profondo), da distribuire e donare sapientemente, chi lavava macchine private, chi aggiustava lavandini ed impianti idraulici, chi sistemava giardini, chi si industriava a capire cosa può far piacere a tizio o caio, puntando il naso al vento come un bracco alla cerca del selvatico, per intuire dov’è la preda, chi si arrufianava in modo prostituzionale e chi esaltava le proprie capacità di civile, applicabili a faccende militari. Il cuoco va fare il cuoco, il muratore va al “minuto e mantenimento”, il geometra entra ai piani alti del Comando, il ragioniere va in uffici amministrativi…. e così via. Un bordello! Alla mattina dopo la colazione, un buon terzo della Compagnia si presenta in divisa da libera uscita e con sguardo irridente, guardando noi in mimetica oramai stabile, se ne va verso le varie destinazioni di “favore”.

Levati dal mazzo tutti costoro, che poi nella vita civile, quasi sempre diverranno emblemi di granitiche virtù civiche e ineguagliabili paladini dei diritti sociali dei più deboli, restano i coglioni, tra cui io, che, o per rifiuto del sistema “leccamenti e ruffianismi”, o per mancanza di malizia pelosa, si accopperanno tutte le guardie ai forti, tutte le guardie in generale e tutte le occasioni di farci una “secchia” così ai campi, addestramenti, manovre, dimostrazioni e quant’altro ed ovviamente dove c’era da sguazzare nell’acqua e ne fango.  Mai mi proposi per imboscamenti o incarichi facili, memore che una sera al “Marghera” , un figlio di buona donna di Ufficiale di picchetto chiede ai componenti del Picchetto Armato Ordinario (PAO), chi sapesse cavarsela discretamente con la macchina da scrivere; in effetti già mi avevano avvisato che si usava quel divertente sistemino per mandarti a magari, pulire i “pignattoni” in cucina, ma il S.Ten. la mise giù così bene, leggendo un foglio come se la richiesta provenisse chissà da dove, che ci caddi come una pera matura e con altri sventurati, ebbi l’incarico di scrostare un congruo accumulo di cacca dai cessi truppa! Il tutto riservato al tipo d’uomo “che non deve chiedere mai…”, si parte dunque per un turno di guardia alle polveriere. Zainone e zainetto ben pieno del necessario, particolare attenzione agli indumenti, non si sa mai, piogge autunnali e quant’altro possa accadere, una bella oliata al FAL, una controllatina alla mimetica e alla giacca a vento, una classica ed abbondante spalmata con grasso di cavallo targato E.I. agli anfibi, butta tutto sul camion con telone aperto ai lati e via verso il territorio veneziano.

Sembrerebbe che il forte in questione sia adiacente alla Riviera del Brenta e che sia titolato in onore del Signor “Poerio”.

Mi ricordo in effetti che prendemmo la Riviera del Brenta verso Padova e poi ad un certo punto, un ponte sul Brenta (canale), dove si svolta all’indicazione “Gambarare”; poi strade, stradette, stradine immerse nella campagna  e proprio non so dove siamo andati a finire, pur tutta via, improvvisamente un ponticello sul fossato ed appare il portale monumentale del vecchio forte. Gli smontanti sono ad attenderci con le bave alla bocca, l’occhio arrossato e torbido, arruffati, stanchi, sporchi, abulici, scassati. Non vedono l’ora di andarsene fuori dalle sfere e di ritornare alla civiltà. Scaraventano le masserizie alla bene e meglio sulla mezzaria del CM, prendono posto sulle panche laterali, sempre teloni aperti, e si involano verso Villa Triste che nella specifica situazione, a loro, tanto Triste non sembrava più. Ci accoglie un Maresciallo Maggiore che con fare perentorio e distaccato divide i presenti in due gruppi.

Un gruppo si piglia il Fal in spalla a va farsi immediatamente un turnetto di due ore nelle varie postazioni, l’altro gruppo si dirige in un prato antistante all’oscura e misteriosa costruzione, per l’istruzione “anti’incendio”: il Maresciallo, in modo autoritario, ci descrive in caso d’incendio, le nostre mansioni.

Ma cose “da mati”, penso io: ma vedi un po’ tu, ammesso e non concesso che quà dentro vi siano degli espolsivi, se noi andiamo li con la pompa ad acqua a spegnere l’incendio: ma manco se mi ammazzano! Pur tutta via, siamo obbligati a sorbirci il corso accelerato del “Piccolo Vigile del Fuoco”, il tizio ci enuncia due o tre regole d’ingaggio e poi ci presenta la pompa montata su ruote che attinge acqua dal fossato e la dovrebbe inviare verso l’ipotetico incendio;  la pompa è  azionata da un motore, dice lui, Volkswagen di 1500 cc (pensa un po’ cosa mi è rimasto ancora nella memoria dopo trent’otto anni), lo mette in moto, il tutto si avvia dopo vani e reiterati tentativi, e ci fa provare come dirigere verso il bastione del forte, il violento getto d’acqua che ne fuoriesce a comando:  “la manichetta deve essere il più possibile diritta, sennò vi si svicola dalle mani e poi prendete in faccia il bocchettone d’ottone che, pur considerando lo spessore dei vostri granitici crani, ve li spappola con una botta sola”!

Il Maresciallo molla l’acqua ed in effetti il colpo che arriva è molto vigoroso, ma…..con intuizione e prontezza, brandendo il bocchettone in due e ben stretto sotto le ascelle, con fatica riusciamo a dirigerlo comunque, più o meno dove vogliamo. Finita ‘sta menata, che di per se è sempre una cosa nuova imparata, torniamo al corpo di guardia ed attendiamo che smonti il gruppo  per rimpiazzarlo. Il Sergente che ci comanda (mai visto prima all’Isonzo), ci fa i turni che partono da zero dopo il nostro rientro: per quindici giorni, uscite non sono previste ma non so come, il Sergente riesce a far i turni in modo che salti fuori per tutti almeno un giorno di completo risposo. E via, in un ripetersi di turni di due ore di guardia e quattro di riposo, cibo quantomeno di dubbia origine e cucinato in maniera approssimativa da qualche benemerito, interminabili periodi di sconcertante solitudine di nebbia ovattata da sonnambulismo e abrutimento sulle altane, nelle garitte, al Corpo di Guardia, e quindi ronde per il perimetro del forte e giri a sorpresa quando un’ispezione esterna era nell’aria. Tanto era il nervosismo che ti mettevano in corpo in relazione a ipotetiche infiltrazioni da parte di malintenzionati, che avresti sparato anche al gatto del maresciallo che come tutti i felini che si rispettino, se ne girovagava sornione in cerca di qualche sfortunato volatile che nelle boschette perimetrali stanziavano giulivi e ove i merli ed i colombacci abbondavano copiosamente.

Il gatto per sua fortuna era bianco e grosso per cui visibilissimo anche al più imbranato delle guardie, fatto sta che avendo già raggiunto una discreta età, si dava per scontato che si prospettava per lui, sicuramente a suo tempo, dopo onorato servizio, una dipartita per cause naturali e non sventrato da una 7,62 Nato. Pensando alla tensione e alla grinta con la quale affrontavamo quei turni di guardia, mi vien da chiedermi cosa avremmo fatto se, con l’indottrinamento e le istruzioni di allora, ci si fosse presentata una situazione simile a quella che qualche mese fa, la Caserma Matter subì da parte delle Loro Signorie, i graffitari “No Global”. Oggi è andata così, ma ai nostri tempi con quelle direttive ben precise, io proprio non oso pensare agli sviluppi.

La notte è la più dura, il tempo non passa mai, l’aria comincia a rinfrescarsi e sopra le altane, specialmente  verso l’alba, sei un misto tra l’intirizzito ed il tossico in overdose di “Nazionali con Filtro”, la bocca brucia, gli occhi pure, la schiena grida vendetta, nei hai due palle che appena senti il cambio, già sei a metà della scaletta metallica. Arrivi alla branda, scaraventi tutta la bardatura da qualche parte, mangi se c’è da mangiare, bevi se c’è da bere, e poi sfrutti il più possibile il dormire sempre che i rompicoglioni di turno non continuino a profferir sguaiatamente, cazzate a raffica finchè non li mandi a “fan”.

Arriva un’ispezione esterna a circa l’una di notte: meno male che sono di turno di riposo.

Però m’imparo a memoria tutta la liturgia e attentamente memorizzo l’agire dell’Ufficiale che effettua l’ispezione: mi sembra che il tutto sia fattibile, e se non hanno voglia di tirati qualche trabocchetto, ritengo che l’ispezione si superabile senza danni. Ai forti, non sarò mai sottoposto ad un’ispezione. Per far passare il tempo, mi metto a cantare, a scrivere lettere, a fantasticare su cosa farò quando avrò finito la naja, poi anche queste cose mi vengono a nausea e oramai non vedo l’ora di finirla. Quando arriva il camion con il gruppetto per darci il cambio, siamo sbudellati, arruffati, sporchi, scassati, e naviganti in una nebbia fuori del tempo. Abbraccio al mia brandina alla Compagnia Mortai da 120 alla A. Bafile di Villa Vicentina, come fosse la mia culla primigenia. “Branda, mia dolce Branda, per piccina che tu sia, sei sempre la branda mia”! Alla prossima.

San Marco!!!

 

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Subject: 13ª puntata "Racconti di naja".
Data: Mar, 26 Apr 2005

Mi metto ad “abbozzare” la tredicesima puntata dei miei “racconti di naja”, all’incirca nel periodo che poi richiamerò nei momenti rivissuti in queste righe. Parliamo del periodo che va tra novembre e dicembre.

Quando sarà finita ed arriverà al Sito, non so, ma intanto questi giorni mi aiutano a ricordare quei giorni.

Dopo l’esperienza della Guardia al “forte” in quel di Gambarare di Mira, quelli di noi che hanno partecipato a quest’esperienza, si sentono sicuramente più partecipi di un “vissuto” militare maggiormente consapevole e più concreto; tra Car e Reggimento, sono già passati cinque mesi circa dall’inizio di questa storia e l’esperienza si nota oramai nei gesti e nei comportamenti più maturi ed assennati, le valutazioni vengono prese con più serenità e ponderatezza, le cose vengono viste con più “furbizia” e maturità (sempre che queste possano essere qualità possibili in ragazzi di vent’anni).

Visto che in qualità di “tube”, i “nonni” che a Villa erano già bello che partiti, non ci assillano più con le loro cretinate e che in verità, nell’ultimo immediato trascorso, hanno demolito letteralmente i “cosiddetti”, e visto che l’atmosfera è meno schizofrenica di quand’eravamo “baffi”, si vive con più avvedutezza e saggezza la vita che giorno per giorno ci viene organizzata dal “grande fratello” con le stellette.

Visto che le cose da apprendere relative al nostro incarico, oramai erano sempre quelle, m’immagino i rompicapi dei comandanti che ogni mattina dovevano inventarsi qualche cosa di nuovo per non farci stagnare in una vita di caserma, “strascinata” ed inutile.

Nel contempo, questa lenta “sedimentazione” che avveniva in noi, portava anche lati negativi.

Si nota distintamente una certa trasandatezza nel vestire che ci accomuna un po’ tutti, pian piano ci acquisisce inconsciamente (sempre e comunque cosa che non tocca i momenti di “libera uscita” dove siamo tutti tirati a lucido che di più non si può): sulla divisa da lavoro giornaliera che poi non è altro che una delle due divise complete che s’aveva in assegnazione, continuando a vestire sempre quella per risparmiare l’altra per quando s’usciva, si evidenziava macroscopicamente una visibile trasandatezza; gente che aveva i pantaloni con la piega svanita nel tempo e mai più ripristinata per cui due borse ai ginocchi che sembravano quelle della spesa; gomiti del giubbetto sformati dall’uso, le tasche oramai gonfiate dall’abitudine di ficcarci dentro le mani ad oltranza, bottoni mancanti, anfibiacci sempre incrostati della fanghiglia perenne che copriva il suolo della A. Bafile, camicie oramai rivestite dalle untuosità epidermiche che volendo o no, erano prodotti dai nostri corpi  i quali, volendo o no – questa era la realtà - potevano fruire della possibilità di una doccia calda, una volta alla settimana.

Per quelli che, vedi il sottoscritto, non avevano un incarico in qualche ufficio (pochi per la verità), o che erano “imboscati” nei vari punti topici (molti per sincerità), la mimetica era d’uso quotidiano per cui oramai ti era diventata una seconda “pelle”: unta e bisunta che stava in piedi da sola, “addomesticata” e riveduta in diversi particolari, la mimetica era divenuta l’espressione esterna del vero “guerriero”.

Levare subito (a noi mortaisti non servivano, ma per esempio, gli assaltatori gli avrebbero voluti con spessore moooolto più congruo), i cuscinetti para gomiti, il cordone che chiudeva appena sotto le chiappe la giubba perché la giubba era di moda tenerla così svolazzante sul basso; le bretelle dei pantaloni, datosi che usate correttamente ad ogni minimo piegamento e vi giuro, ma poi….lo sapete meglio di me, di piegamenti durante la naja, se ne fanno a bizzeffe, saltavano i bottoni per cui piuttosto che avere i pantaloni sempre sul “calante”,’ste “tiracche” venivano modificate a mo’ di cintura; si mantenevano in loco i cuscinetti paracolpi per le ginocchia (questi si, molto utili anzi, indispensabili per noi mortaisti), cuscinetti che alla fine non erano altro che delle spugnette per lavare le stoviglie, inglobate sulla tuta mimetica; alle brache quindi, venivano aggiunti lacci, cinturini, elastici e quant’altro adatto alla necessità, tutti aventi lo scopo di tenerle più aderenti possibile alle gambe a causa del fatto che le dimensioni dei “gambali” delle brache erano così generosi, che un Lagunare che non avesse usato quell’ “escamotage”, durante le marce al cosiddetto imposto “passo lagunare”, sarebbe stato così impedito considerevolmente dalla larghezza dell’indumento ed alla fine si sarebbe trovato punito per non aver marciato con la voluta ( e pazzesca, aggiungo io), cadenza “lagunare”, l’interno coscia in carne viva ed i “gioiellini di famiglia”, spalmati all’interno delle mutande.

L’uso delle brache più o meno aderenti della mimetica, laddove non fossero riconoscibili i gradi del soggetto che la portava, distingueva subito i Lagunari dai Sottufficiali e questi dagli Ufficiali: i Lagunari usavano qualsiasi mezzo disponibile per fare aderire alle gambe i pantaloni della mimetica e quindi largo uso di lacci da scarpe, elastici ricavati da camere d’aria, cinturini scuciti e fregati ad altri indumenti, elastici d’ordinanza acquistati al negozietto di articoli per militari, spaghi, fili elettrici, strisce di telo tenda e quant’altro potesse sopperire alla specifica necessità; i Sottufficiali non mettevano niente, ritengo perché non potevano farsi vedere dai superiori in grado, ad adoperare questi “mezzucci” da Truppa ed anche suppongo, per una sana e tradizionale tirchieria, caratteristica di allora, emblematica della categoria e che contraddistingueva il Sottufficiale a vivere un rapporto con il denaro, direi quasi patologico (saranno state le paghe da miseria, sarà stato chissà che cosa, non spendevano una lira in più, neanche se li ammazzavi), e per ciò quei pochi di questa categoria che dovevano marciare o muovere le gambe a passo lagunare, si tenevano gambali larghi e svolazzanti sicché quando camminavano, si sentivano schiocchi aguisa di vele al vento, ma di modifiche o sistemazioni alle “braghe”, non se ne discuteva nemmeno; per quanto riguarda gli Ufficiali, generalmente se si trattava di S. Tenenti, Tenenti e qualche raro Capitano che ogni tanto doveva farsi il “mazzo” assieme ai loro uomini, le brache della tutta erano sistemate in sartoria restringendo i gambali e facendo applicare elastici interni o bei cinghietti in tessuto mimetico. Venivano applicati anche elastici alla fine del gambale nella posizione dove la braca s’innesta nell’anfibio, (come nelle mimetiche d’adesso), per cui non dovevano star li a infilar elastici per poi rivoltarli sui colli degli anfibi, essendo già fissati all’indumento.

Se si trattava invece di Capitani “seniores” o Maggiori più addusi alla scrivania che alla marcia o per non dire del Colonnello Comandante, le mimetiche rispolverate ogni tanto per le sporadiche occasioni, erano nuove di trinca e inamidate per l’inazione; l’uso dei gambali ritornava alla guisa di quello praticato dai Sottufficiali, ritengo non per tirchieria visti gli stipendi un tot più congrui, ma perché gli Ufficiali dovevano attenersi per mentalità, al regolamento che non prevedeva l’aggiunta di quegli “adattamenti” e anche perché, sicuramente poca marcia facevano e avrebbero fatto.

Dopo settimane d’addestramento in comprensorio, le tutte mimetiche erano intrise tra fango sudore, sangue e lerciumi vari, che come ripeto, oramai rimanevano in piedi da sole. Nell‘immediato futuro non v’era sentore che ci fosse un modo fornito a spese dall’Esercito, per poterle lavarle.

Qualcuno di noi al quale oramai dava di vomito solo indossare al mimetica mattina dopo mattina, decideva di portarsela a casa e farsela lavare in famiglia, così suscitando nella mamma o nella nonna commenti poco lusinghieri nei confronti dell’organizzazione delle lavanderie militari.

Ma pure i legittimi proprietari delle mimetiche non scherzavano.

Nel contesto della pulizia personale bisogna precisare che la doccia con acqua perfettamente fredda, era agibile e permessa comunque alla fine dei servizi e prima della “libera”, il sabato e non quando uno se la voleva fare; bisogna dire che la cosa era infatti vista da molti con una certa diffidenza e dopo qualche sporadico esperimento molti sceglievano di vivere sporchi che morire congelati.

Alcuni di noi, forse i più schizzinosi e diciamo così, i più “tegoline”, avevano deciso di tentare pure qualche abluzione infrasettimanale nei lavandini dei cessi, per cui ci si metteva in piedi sui lavandini, ovviamente nudi come vermi (la temperatura tardo- ottobrina imperversava impietosa), e con la gamella si cercava di lavarci e risciacquare il saponaccio da bucato per la bisogna utilizzato per l’epidermide e che per la verità veniva distribuito con una certa copiosità; il contatto con l’acqua già gelida che fuoriusciva asfittica dai rubinetti ci faceva fare di quegli urli da forsennati che se per caso persone non informate del contesto, fossero passate di li per caso, avrebbero potuto scambiare quel luogo da dove uscivano inquietanti ed ambigui urlacci, con la toilette di qualche casa di tolleranza.

Altri, ai quali quella promiscuità non era simpatica e il loro pudore ancora forte, avevano inventato di costruire una specie di griglia composta da tanti piccoli assi di legno provenienti da scarti manutentivi, appoggiarla sul fondo della turca e cioè del cesso, quindi con un tubone di gomma pendente dalla cassetta dello sciacquone di cui veniva bloccato il galleggiante apposta perché facesse fuoriuscire l’acqua, erano riusciti ad auto fabbricarsi la parvenza di una cosa simile ad una doccia “umana”.

La cosa per altro non ebbe molto successo perché in sostanza, datosi che le porte dello “scomparto –cesso”, erano quasi sempre divelte ed appoggiate ai muri, d’intimità pudica poca ne ottenevano ugualmente e poi ci si doveva sempre lavare a stretto contatto di superfici di un luogo con pareti, se pure piastrellate, dove tutti andavo ad espletare le umane necessità fisiologiche, e succede che  l’asciugamano purtroppo a volte cade, scivoli su per un muro leopardato di ditate scure, il sapone e lo shampo dove lo appoggi, gli odori sono forti ed ”autentici”, il pericolo di mettere un piede in fallo è grande, per cui l’invenzione non ebbe grande successo.

La cosa andò avanti così per metà di ottobre e per quanto fu possibile, per tutto il mese di novembre del 1966.

Poi qualcuno al Comando di Battaglione ritenne che era arrivata l’ora anche per una doccia calda (però una volta alla settimana), per cui questa pratica dell’acqua fredda si affievolì da sola fino ad esaurirsi completamente per poi riprendere in primavera dell’anno successivo.

La doccia calda, scoprimmo, era una specie di prova olimpionica da portare a termine in cinque minuti!

E quando dico cinque, dico cinque!

Era evidente che sussisteva una certa carenza di combustibile che se la mente non mi tradisce, era la vecchia e tradizionale legna da ardere fatta bruciare da un “imboscato alle docce”, all’interno di una vecchia caldaia ante guerra; dentro la caldaia ci finiva pure tutto il combustibile di fortuna recuperabile, la cartaccia degli uffici, della mensa, i cartoni le cassette della frutta, le immondizie  degli spacci e dei circoli ecc. ecc.

Legna da ardere per tale impiego, se ne trovava sempre poca per cui ecco spiegato perché la doccia doveva essere velocissima.

Qualche maligno sosteneva che la legna arrivava più che copiosamente, altri dicevano che legna partiva dal legnaiolo in una quantità, ma arrivava in un’altra, sta di fatto che le temperature dell’acqua della doccia, arrivavano quasi mai al di sopra dell’appena tiepidino e per pochissimo tempo.

La prima doccia a Villa, ebbe del rocambolesco: un tizio urla che l’acqua viene mollata per minuti cinque, ne di più ne di meno, dopo di che viene chiusa e sapone o non sapone, te ne vai fuori delle scatole e se non ce la fai, vai a finire la doccia dove lavano gli M113 con l’acqua fresca assai….

Penso che si stia dando via di testa e che in cinque minuti manco riesci a lavarti i capelli, me la prendo comoda (ma non tanto perché immagino che i minuti non saranno cinque ma magari dieci per cui per i tempi con cui eri abituato a casa, la cosa poteva anche essere fattibile), a mezza saponata tolgono l’acqua e ne viene fuori un finimondo di proteste e di bestemmie; gira e rigira, pensa e ripensa, il tizio, un sergente maggiore, non ti fa rientrare assolutamente per risciacquarti completamente.

Una sfilza e sequela di apprezzamenti alla famiglia del maggiore (ovviamente mugugnati sotto voce), ed in contemporanea si manifestano i primi rudimenti dell’arte in cui ogni militare prima o poi deve eccellere se vuole sopravvivere.

Meno male che quello che va dentro dopo di me è il mio fratello di naja Dario, gli faccio un cenno mentre faccio finta di vestirmi, furtivamente con un salto tersicoreo, come efebo schiumante dalle panche, piombo di nuovo nella doccia e in due in doccia dentro insieme, sgomitando e frenando la ridarella, riesco a risciacquarmi via il sapone che oramai si era già che parzialmente asciugato addosso.

Da quella volta, dovetti organizzarmi in maniera tale che con l’orologio alla mano stabilii tempi e metodi al fine di restare dentro ai fatidici cinque minuti: lavaggio dei capelli a parte in altro loco con acqua fredda, quindi insaponamento velocissimo e programmato con durate differenziate a secondo della parte anatomica da lavare ma mai superiore a trenta secondi, lavaggio a velocità della luce, asciugatura anche questa ottimizzata e ragionata utilizzando l’apposito telo “carta vetrata”, per cui dopo un paio d’esperimenti, praticamente l’ultima bolla di sapone scivolava dal tuo piede e l’ultima goccia d’acqua cadeva dalla doccia….cinque minuti esatti!

Molti di quei movimenti mi sono rimasti memorizzati e tante volte ora durante la doccia, uso se non proprio quello, un sistema abbastanza somigliante al metodo di Villa Triste.

Ma cambiamo, come direbbe il mezzobusto televisivo, “decisamente” argomento.

Dicevo sopra che intanto eravamo arrivati nel Novembre del 1966……

Ora, io penso che quasi tutti noi ci ricordiamo cosa successe il 4 di Novembre del 1966.

Per quelli a cui questa data non ricorda niente, mi permetto di rammentare che nell’occasione, il Triveneto e non solo, subì una delle catastrofi alluvionali più disastrose dell’ultimo secolo. Anzi del penultimo…..

La nostra bella ed irripetibile Venezia rischiò di subire (e comunque molti ne subì ugualmente), tanti e tali danni da arrivare ad una situazione d’irreversibilità.

Per la verità, passati quasi quarant’anni, Venezia è oggi, Novembre del 2005, nella stessa situazione, tale ed uguale ad allora.

Perla e Regina dei mari, miracolo d’equilibrio tra acqua e terra, indifeso, fiabesco e fragile merletto di filigrana che da un momento all’altro può, se la fatalità e le condizioni atmosferiche si combinassero nuovamente in quella particolare casualità o in combinazione ancora più pesante, rimanere danneggiato per sempre o addirittura, ma non lo voglio neanche pensare perché non sono un ambientalista “talebano” integralista , può sgranarsi nel nulla…

Ora vi sto parlando di naja, quindi non m’inoltro in pareri sulle veneziane amministrazioni comunali che via via si succedettero e che attualmente sono così tanto “care” ai Lagunari, per cui avremo sul tema, altra occasione e sede per disquisire.

Il 3 Novembre, che precede ovviamente il 4, festività nazionale, alla sveglia c’è già pioggia battente e vento, più un Greco freddino che un classico tiepido Scirocco da “acqua alta”; sostenuto e teso già dal mattino, si evidenziava corposo e percepibile distintamente perché spingeva al galoppo minacciose e basse nuvolacce nere. Prevediamo subito il complicarsi dei rientri in famiglia;  ci prepariamo per un “trentasei” e al riparo e all’asciutto nelle nostre se pur ignobili camerate, ci apprestiamo ad indossare la divisa da “libera”.

Il Sergente Francis, al secolo Francioso, ci comunica che tutti i permessi sono sospesi sino a nuovo ordine per cui nessuno va fuori della caserma: increduli chiediamo lumi ed il nostro ci dice che sembrerebbe che dal Comando fosse arrivato ordine di attenersi ai tempi regolari senza anticipare com’era d’uso, i “trentasei”,  quindi, senza essere ufficiale, intuiamo che in pratica è un preallarme!

Ci mettiamo a imprecare il dio dei venti (Eolo) e delle piogge (non so, ma qualcuno da imprecare si individuò), chi si ributta a dormire, chi ronza su è giù tra la fureria, la Comando e lo spaccio.

La notte passa con il timore che arrivi l’allarme ma questo non succede; però manco rientra il trasparire del probabile preallarme. Il giorno di festa è d’attesa: se non sarà un trentasei, potrà rivelarsi una specie di “ventiquattro” o chissà, un "dodici"…

Un tizio possiede la radio e quindi verso le cinque e mezzo della sera, abbandonata ogni speranza d’uscire, siamo tutti stravaccati sulla ed attorno alla sua branda per sentire le ultime notizie sul caso e che per la verità arrivano dai vari giornali radio, frazionate e confuse, ma pur tutta via s’intuisce che sono affari seri e che la zona e quella anche di nostra pertinenza.

Lucido, nella fioca luce della camerata, con veemenza e particolare attenzione, le scarpe nere “fuori ordinanza” da “libera”, ma poi con preveggenza spalmo il grasso con spesse lappate,sugli anfibi; l’orecchio mi viene attirato dal “sacramentare” del gruppo che segue le notizie via etere: le Forze Armate vengono fatte intervenire nel Triveneto: inquietudine, gelo ed apprensione!

Porca Puttana! Chi si spara un serie di Nazionali Semplici senza filtro, chi impreca all’indirizzo del Ministro della Difesa, chi come il Conte Cian si sgargarozza per esorcizzare gli accadimenti acquei, un paio di mezzi litri di rosso innominato….porca puttana e ancora porca puttana!

A Venezia si teme una marea eccezionale, ma sono gli argini di fiumi e torrenti che incominciano a cedere: quelli di noi che abitano nella  Serenissima e quindi usi alle acque alte, ci ridono su, non capiscono ancora l’eccezionalità (forse temono di capire), altri delle province di Treviso, Padova, Trieste, manco s’interessano a quanto sta avvenendo, Rodigini, Chioggiotti, e moltissimi altri che invece abitano lungo o nei pressi delle gronde lagunari e che hanno sentito da piccoli, del Po , sono invece seriamente in allarme ed impensieriti mica male per il fatto che casetta loro si trova proprio in quei luoghi.

Ci sarà stata anche la spensieratezza e il voler sempre sdrammatizzare il tutto dei vent’anni, ma imbecilli no!

Si va al rancio serale con il “transistor” incollato all’orecchio, si rientra ed in camerata si ha la sorpresina: tutti in preallarme, ufficiale e certificato questa volta e se non allarme rosso sicuramente sarà arancione; preparasi in assetto da combattimento (allora si diceva così), “non occorre armarsi…” urla il Francioso”, e tenersi all’occhio e  pronti al probabile allarme.

Bestemmie e proteste ma sotto sotto, eccitazione e voglia d’agire….. voglia d’intervenire.

Alle 23,00 è allarme!

Azione! Tutti giù; dopo pochi minuti sui piazzali appaiono i CM ed a fianco si presentano pure diversi M113; noi bardati di tutto punto con tanto di zaino e teli tenda, alle 24,00 circa si parte per, chi dice Latisana dove la piena sta portandosi via i binari del treno (sic!), chi dice invece verso nord est, Isonzo e company, altri prevedono Grado, ed altri addirittura la zona del Livenza a Motta o a Meduna.

Io fui a Latisana.

Di quel che si fece non sto qui a raccontare perché ora, a mente serena e passati molti anni, ritengo di dire che la modestia ed il senso del dovere debba farmi segnalare solamente che durante quei tre giorni seguenti, si fece quel che si doveva fare, ordinati di farlo, si, ma con il cuore e la “ghigna” lagunare che ha spinto sempre nella direzione giusta.

Alla fine di quell’esperienza la cui descrizione per ora, intendo così liquidare, succede un sabato mattina, che arrivò un pezzo grosso, non mi ricordo se Colonnello o Generale, comunque una “canoa”; ci schierammo il Btg. intero e noi che avevamo partecipato a questi fatti fummo inquadrati a parte e poi ad ogni uno di noi fu consegnato un attestato di benemerenza e un, chiamiamolo “riconoscimento”, da parte dei Comandi (????): un nero ed enorme rasoio elettrico marca “Brown”. Il rasoio mi fu rubato dopo qualche mese, l’attestato lo conservai orgogliosamente sino all’anno 1974, anno in cui mi sposai e ritengo che durante il trasloco, l’attestato andò perduto o rimase imbucato chissà dove.

Di ciò ne sono molto dispiaciuto: ci tenevo.

Riprendiamo la normale vita di caserma: le amicizie si consolidano vieppiù, essendo le ore da passare insieme, meno farcite di cose da apprendere per pararci il didietro; i gruppi si rintanano magari con la scusa di un “ripasso” alla tecnica di puntamento….in qualche anfratto in giro per la vasta caserma.

Io, ogni tanto, offro la mia collaborazione all’armiere perché mi piace andare a smontare e pulire le armi, vedere come funzionano, capire i meccanismi; mi ci diverto e quando appoggio alla rastrelliera un bel BAR pulito, oliato e lucido, me lo rimiro con orgoglio. Niente a che fare con l’ “imboscamento”: li si lavorava sul serio. Questo interesse per il manufatto “arma” mi ricomparirà poi nella vita civile e diverrà poi una delle mie più grandi passioni.

Basta un buco, una tettoia, una baracca in disuso giù per la polveriera, e lì a raccontarci le cose nostre: confidenze intime, le problematiche future, le rogne familiari, il timore del domani finita la naja, le aspettative ed i progetti.

Quando le giornate erano proprio infime, pioggia e fango, vento e le prime gelide leccate da Nord- Est, ci si imboscava in camerata, sdraiati sui cubi della branda, si estraeva il telo lo si agganciava sommariamente, ci si sedeva sopra e con le gambe a penzoloni, magari coperti alla bene e meglio con il paltò sopra perché le temperature in tutti i casi, erano sempre “cristalline”e dannatamente avvertibili, in quei momenti di confidenza, ogni uno diceva la sua.

Argomento principale: le femmine!

A vent’anni, era l’argomento che emergeva in tutte le discussioni: si iniziava a parlare del futuro acquisto dell’utilitaria ed alla fine erano le donne il vero obiettivo – sedili reclinabili o si risparmia sull’accessorio?

 Si scherzava sulla squadra di calcio del cuore ma, gira e rigira, si concludeva sconfinando sul settore muliebre; si era andati a vedere un film, ma della trama poco s’era capito e più attenzione risultava dai discorsi, essere carpita, dalle rotondità dell’interprete femminile; alla Tele qualcuno riferiva d’aver visto ballerine con tanto di epidermide scoperta; i più allupati traevano dallo zaino l’ABC o LE ORE ed i paginoni centrali facevano esposizione di belle figliole coperte dai bikini dell’epoca; altri riferivano di brevi e forse fantastiche avventure con giovani friulane chi a Scodovacca, chi a Pieris o in qualche altro paesetto vicino.

“Io gli farei così….io invece propenderei per cosà…io, l’ultima ho sperimentato che messa a …..a me invece hanno detto che se si fa così, succede che lei reagisce colà…..”.

Erano vere o false, io non so, certo che di scemate ne venivano fuori a raffiche continue.

In seconda battuta, si parlava delle proprie famiglie, com’erano composte, i genitori, se ci si andava d’accordo oppure no, gli amici, chi ce l’aveva, la ragazza.

Si venivano così nel tempo, a conoscere quasi tutti i problemi ed i pensieri segreti dei tuoi vicini di branda talché, giorno per giorno tra di noi si costruiva un rapporto confidenziale e fraterno.

 Vado molto d’accordo con il Dario Bari che abita in una casa adiacente alle rotaie del treno a lato del cavalcavia sul Terraglio, appena fuori Mestre (località…località….boh…. e chi se lo ricorda, so che vi erano due trattorie con lo stesso nome, “Favorita” forse, una nuova ed una vecchia,ma….non mi ci giocherei un caffè), ora ci sono dei campi da tennis sulla sinistra andando verso Mogliano e d’estate vendono le fette d’anguria…...Un bravo ragazzo che faceva il disegnatore tecnico presso un architetto, il padre ferroviere, madre casalinga, sorella, fidanzata, insomma “un bravo fio”, molto solidale e corretto, un vero amicone; dal primo giorno al CAR a Pesaro dove avevamo subito fatto amicizia, in avanti nel prosieguo della naja, abbiamo convissuto l’esperienza militare assieme, a parte il breve intervallo in cui io ero al “Marghera” e, diciamo, quasi gomito a gomito, con grande stima reciproca e ottimo affiatamento.

Aveva le seicento, blu scuro e se l’era portata a Villa verso la fine della naja: facemmo con quell’infernale macinino, diverse fughe serali.

Il suo sogno era di trovare un lavoro fisso come disegnatore presso qualche azienda meccanica, sposarsi e mettere su famiglia con la sua “morosa”.

Dopo un paio di mesi dal congedo, andai a trovarlo presso lo studio dove provvisoriamente lavorava e lo trovai felice ed euforico perché aveva trovato un ottimo impiego dalle parti di Preganziol - Zero Branco; ci lasciammo con la promessa di ritrovarci con una certa regolarità, cosa che certamente sarebbe avvenuta: una sera, dopo poche settimane dall’inizio del suo nuovo impiego, rientrando verso Mestre con un temporale furibondo, perde il controllo della nuova otto e cinquanta coupè appena presa usata, e s’infila nello Zero dove muore annegato dentro l’auto.

Lagunare Dario Bari – II° ’66.

Ciao Dario e San Marco!

Un altro amicone, tutt’altro carattere di Dario, ma sempre un ragazzo corretto, onesto, e serio, era ed è (ringraziando Dio), il buon Gianni De Prà, zona Favaro Veneto – Carpenedo: babbo da poco defunto che lavorava in raffineria Shell, madre e morosa, sorella già accasata con il proprietario di un laboratorio per la fabbricazione di lampadari, la sua speranza d’occupazione futura era quella di farsi assumere dal cognato.

Durante la naja, era insofferente alle cose militari, ma abbastanza filosofo da non arrivare mai a fare il coglione; prese subito una decisone drastica e andò a fare l’attendente del Colonnello Comandante di Btg. e quivi trascorse tutto il restante periodo di naja.

Me lo ricordo che vagava per la caserma con il secchio del carbone o con qualche scopa a spallarm, basco infilato nella spallina destra e sorriso a trentadue denti quando mi vedeva scarrozzarmi il mortaio e invece lui accennava a passi di danza con la scopa come dama…..

Ogni tanto portava in camerata per l’uso comune di noi tre, qualche paninazzo bello pieno, qualche bottiglietta di quello giusto da Ufficiali, giornali e notizie fresche dal Comando.

Dopo il congedo ci vedemmo con regolarità per diversi anni e tutt’ora ci si sente; diverrà poi stimato imprenditore nel campo dei lampadari, ogni tanto ci telefoniamo con reciproco piacere.

La grande amicizia militare nei miei riguardi è rimasta ma dei Lagunari non gliene può importare di meno!

Altri bravi ragazzi me li ricordo guardando le mie foto ricordo di naja e faccio fatica a collocarli come miei “fratelli di naja”, oppure come Tube o addirittura “baffi: De Florio, un piccoletto magro, molto compunto, che nelle gare di pattuglie, ci distanziava tutti con un passo forsennato, Giupponi  che veniva sempre a fregarmi la chitarra e avrebbe voluto imparare a suonarla, il  C.M. Moretti poi sergente, vivi e lascia vivere, Rumor veneziano pacioccone e sempre allegro, con dei piedi che puzzavano anche quando aveva gli anfibi, Scaramuzza, dalla dizione distinta e dai modi raffinati, Bonaconsa il vissuto, Zongaro di Cesarolo, il Sergente Castagna dalla inflessione romagnola e molti altri di cui ricordo il viso ma non il cognome….

E poi l’allora Sergente Francioso che dopo molti anni, ritroverò con il grado di Maresciallo Maggiore, sposato con una gentile Signora di Ca’ Savio e quindi trapiantato a Cà Vio: saranno passati circa venticinque anni dal congedo ed ero fermo in auto sulla strada che costeggia la diga nord di Punta Sabbioni, stavo facendo delle annotazioni di lavoro, con la coda dell’occhio vedo un tizio in piena attività subacquea, guadagnare poi gli scogli e seguendolo con lo sguardo perché molto interessato all’attrezzatura per via che pure io ebbi delle frequentazioni di tutto rispetto in tale sport e perché la sua barbona bionda aveva qualche cosa di vagamente familiare. Mi viene un lampo! Forse è Lui!

“Ostregheta”! Era proprio Lui, il Sergente Francis, Francio: “a Frà” come tante volte brevemente lo appellavamo, animaccia terrona e stomaco sempre vuoto; colui che ci aveva accompagnato a balia per tutto il periodo di Villa Triste molti anni prima: lo avvicino e approccio un attimo indeciso ma poi tutto s’incanala di gran carriera tra ricordi e risate. Poi durante i miei giri di lavoro, lo incontravo spesso ed ogni volta lo chiamavo “baffo!” e Lui: “famme ‘na trentina de pompatine, vai”, e giù a ridere di cuore come”baffetti” imberbi ed “incancarii”. Una quindicina d’anni fa mi sembra, in un incidente stradale in località San Giorgio di Nogaro – triestina bassa, perderà il figlio ventenne che stava rientrando in caserma dopo un permesso; la cosa determinò con il pensionamento giunto poco dopo, il trasferimento in altra città (Alessandria , mi pare). L’ho visto l’ultima volta, al Raduno di San Donà: baffo quà….baffo la…ti ricordi quella volta a….e quell’altra volta che….

E si. Il Sergente Francioso che aveva messo la firma perché mi raccontava, non andava d’accordo con il padre e per la qual ragione decise di fare il militare: spesso mi proponeva la teoria che la vita sotto la naja aveva i suoi lati positivi ed in effetti, batti e ribatti, poco ci mancò che non mi convincesse a fare il salto.

Io ero solo, i miei genitori erano mancati quando avevo quattordici anni, vivevo dai miei zii materni in un luogo che non era quello delle mie radici, tutte le strade erano possibili ed aperte e la vita militare non è che proprio mi fosse così antipatica.

Mi trattenne solo il fatto che i miei sogni di gloria economica possibili in quel di Jesolo, località turistica in pieno sviluppo, erano talmente allettanti che la vita militare mi sembrava troppo semplice ed in prospettiva futura, poco appagante.

Ci mancò comunque poco, direi quasi, un pelo! E ancora oggi ci rimugino sopra se feci bene oppure no a non passare il Rubicone.

Chissa….

Le temperature diurne, ma special modo le notturne, diventavano sempre più fredde, le guardie di notte erano dure, lunghe e prostranti perché il freddo era micidiale: Dicembre.

Una notte, turno di guardia dalle 02,00 alle 04,00, sono di sentinella in fondo, alla “polveriera”. Cade una pioggia sottile e fitta ed il vento carsico sferza di buona lena la caserma e lingue gelate ti entrano tra gli indumenti, a lambirti la pelle.

Giro e rigiro attorno a ‘sta porca di costruzione completamente priva di un poco di tetto spiovente o di un accenno di tettoia; cerco di piazzarmi dal lato dove tira meno il vento ma dopo poco sento l’acqua che arriva all’epidermide, giù per il collo e le spalle.

A questo punto non ci faccio più caso e mi metto a saltellare lungo il marciapiede, per vedere di scaldarmi un poco. Ogni tanto mi fermo e scruto l’oscurità piena di misteri, indugio sul cono di luce dove è piantato il cartello “Alt! Farsi riconoscere!”. Tutto di colpo mi rendo conto che in lontananza, tra lo stillicidio delle gocce nelle pozzanghere, s’ode un impercettibile rumore di passi nel fango della strada che proviene dalle officine e scuri movimenti riflessi dalle gocce di pioggia sulle lenti degli occhiali, mi mettono in repentino stato d’allarme: arriva l’ispezione!

Non ne avevo mai avuta una per cui il cuore va a mille, la bocca si asciuga in men che non si dica, il panico mi assale, prego qualche santo che non ricordo ma che sono sicuro che in quel momento si è svegliato per proteggermi, imbraccio il Fal Alpino di cui per la prima volta ne uso un esemplare e sbotto nel classico “altolà, chi va là” provato e riprovato centinaia di volte, sento di risposta “ispezione” e segue via via la liturgia del botta e risposta “parola d’ordine….Padova …..Paola….” e sembra che la cosa si svolga nel modo dovuto.

Cerco di riconoscere l’Ufficiale d’Ispezione e nel cerchio di fredda luce proiettato sul terreno del posto di guardia non mi aiuta perché l’ombra del frontale del basco cade verticale sul viso dell’Ufficiale: un leggero movimento e poi un tonfo al cuore! Terrore: l’Ufficiale che effettua l’ispezione è il devastante Kriminal, per il volgo, il Tenente Di Benedetto: se ne raccontano di tutti colori su di lui; che faccia scherzi per fregarti l’arma, oppure che Ti metta in condizioni di confusione e panico tale, da farti perdere la giusta concentrazione.

Mi piazzo a circa un metro dietro di lui con l’arma baionettata e rivolta alle sue chiappe e lo seguo a mia volta seguito dal Capoposto; sono talmente concentrato che se il tizio fa un movimento appena più rapido del lecito, vi giuro, lo infilzo tanto era il parossismo indotto; facciamo il giro della costruzione e sembra che tutto vada OK.

Penso che la cosa finisca li ed invece il buon Kriminal vuol fare l’ispezione all’arma: come dicevo sopra, era la prima volta che prendevo in mano il Fal per cui non avevo la più pallida idea se lo smontaggio della scatola di scatto fosse come quella del Garand oppure no; vado per intuizione e volto a pancia all’in sù il Fal e comincio a tirare il ponticello per liberare l’estrazione della scatola di scatto; manco per niente, il ponticello non si muove: tutto bloccato!

Tiro e spingo come un dannato, scivolo sul ponticello mi sguscio le nocche della mano destra tant’è che dopo un attimo comincia a fuoriuscirne del sangue, incollo la pelle delle noche sul ponticello, sbuffo ed impreco ma questo non intende di saperne di sganciarsi.

Guardo il Kriminal che gelido e serafico segue con attenzione il mio maldestro armeggiare, vede che mi sono sconquassato una mano ma tace e mi guarda imperterrito in attesa che io risolva la faccenda; io mi guardo la punta degli anfibi, gonfio le gote, soffio e dico “pfffui!”, con una mezza imprecazione ed direttamente rivolgendomi al Caporale Capoposto, sbotto dicendo: “Dì al Signor Tenente che non riesco ad sganciare la scatola di scatto perché è la prima volta che uso questo fucile ed a tutt’oggi nessuno mi e ci ha insegnato a smontarlo per cui non so quanta e quale pressione devo fare sul ponticello sempre che il metodo di smontaggio sia quello; detto questo, io il fucile non glielo do perché non posso asportarne la scatola di scatto!”.

Il Capoposto mi guarda con occhio altrettanto incerto quanto il mio e poi rivolge un’occhiata interlocutoria al Kriminal in attesa di stabilire un qualche cosa; il Kriminal, secco e gelido com’era suo uso, sibila: “io l’arma la devo e la voglio controllare, per cui pensatevi un po’ un qualche cosa perché fin che l’arma non è controllata, da qui non ci si muove e se l’arma non può essere controllata, ne deriva che sono cazzi!”.

Il Capoposto mi guarda con lo sguardo nello stesso tempo seccato ed implorante ed io mi sento avvampare anche se il freddo è più cane del solito e la pioggia continua ad investire lo spettrale trio notturno.

Cerco con uno sforzo sovrumano di sbloccare ‘sto ponticello dell’accidenti, il sangue sgorga in maniera più che visibile dalle due dita pelate, ma la cosa non si evolve.

Mi dico: “ragiona con logica e vedrai che non succede niente”.

Quindi guardando il Tenente Di Benedetto ma rivolgendomi al Capoposto, dico:”propongo che se il Capoposto ha già smontato in passato il Fal e quindi sa come si fa, lo faccia lui e poi dia i due pezzi a me quindi io porgerò in successione alternandoli, i due pezzi al  Signor Tenente, mentre io come da regolamento terrò, impugnando la baionetta in mano, sotto controllo il Signor Tenente che esaminerà così l’arma; alla fine dell’ispezione dell’arma, avverrà il procedimento inverso sino al montaggio completo dell’arma”.

Il Kriminal mi guarda come se mi volesse traforare con lo sguardo, si volta teatralmente e ci da le spalle per un attimo guardando luci lontane, il vento fa svolazzare le falde dei cappotti, il silenzio, a parte il gorgogliare delle grondaie sui marciapiedi della “polveriera” è assordante, la scena ha del filmico indubbiamente; il Kriminal si passa una mano sulla faccia poi si rivolta lentamente e freddo dice al Capoposto: “va bene, facciamo così!”.

Sarà stato perché usai più volte il “Signor” Tenente, sarà stato perché mi misi in posizione piuttosto aggressiva con la baionetta a pochi centimetri dal collo del Tenente (a volte il pericolo incombente ti fa tenere strani ed inusitati comportamenti), sta di fatto che mi lanciò questa volta un’occhiata piuttosto perplessa (non ci sta scritto da nessuna parte del regolamento come devi tenere sotto controllo con la baionetta, il controllore), sta di fatto che la cosa si concluse praticamente senza ulteriori complicazioni.

Non mi sembrava vero.

I polmoni non ne volevano sapere di mettersi a respirare di nuovo, il cuore continua il ritmo indiavolato ancora per qualche tempo, il campo visivo comincia a riallargarsi sino alla normalità.

I due se ne scompariranno nella notte e dopo un’oretta mi venne dato il cambio.

No comment; nessuno dice niente, la guardia montante non ne sa niente ed io a mia volta me ne sto zitto sui fatti appena accaduti.Il Capoposto, dopo avermi avvertito di non passare le munizioni al mio sostituto, ma di tenermele, non fiata per cui cerco di rasserenarmi.

Ma non è finita là. Al corpo di guardia, il Capoposto (poteva aspettare ancora un po’ per dirmelo), mi dice che il Tenente Di Benedetto mi sta aspettando e mi vuole a rapporto subito: così come sto con armi e bagagli, arrivo, busso alla porta dell’ufficio, mi schiaffo sull’attenti, urlo Lagunare Tizio Caio, Compagnia Mortai da 120, comandi Signor Tenente, quello mi guarda e mi dice “adesso controlliamo le munizioni in dotazione!”.

Venti cartucce in 7,62 Nato, dovrebbero essere contenute in un sacchetto in tela mimetica, cucito e sigillato e che mi avevano consegnato quando ero montato di guardia e che tutt’ora avevo dentro la buffetteria. Dovrebbero…perché il Tenente Di Benedetto nota una leggera scucitura, apre il sacchetto e…….. le cartucce sono diciotto!

“Sono diciotto e quindi ne mancano due! Cosa facciamo?”.

Altro collasso cardio circolatorio in arrivo. Cacchio, io non le ho prese e non so cosa dire…

Mi viene di inviare la solita richiesta d’aiuto al mio santo personale addetto alle emergenze tragiche, quindi tosto mi giunge l’ispirazione dei momenti maledetti e dico: “ Signor Tenente, quando mi è stato dato in carico il sacchetto con le munizioni, ne mi è stato detto di controllare, ne io ho potuto farlo e anche se avessi voluto farlo non lo avrei potuto fare perché durante la presa in carico delle munizioni ero sollecitato dal Capoposto a presentarmi per l’ispezione di “Guardia montante”, quindi io non potevo sapere che ne mancassero due!”.

L’Ufficiale chiama il Caporale Capo Guardia e dai discorsi che fanno capisco che ispezionando le munizioni delle altre guardie montate con il mio turno, aveva trovato degli altri ammanchi di cartucce, io vengo congedato su due piedi e andandomene in punta di piedi, anzi, d’anfibi, incomincio a sentire il Kriminal che si mette a “cazziare” urlando verso il povero Caporale che pure lui a dir la verità, manco ne poteva sapere più di tanto.

Per il resto della notte non dormii più, rimasi elettrizzato per tutta la mattina e quando smontai mi sembra d’aver vissuto in un film.

Tenni sotto controllo tabelle e controtabelle, non vidi comunicazioni di punizione, chiesi in fureria e i colleghi mi dissero che di quello specifico, non se ne era parlato.

Non ne conseguì nulla.

Quindi, riflettei, il Kriminal che tutti detestavano perché “carogna”, tutto sommato, nei miei confronti e nello specifico, si comportò in maniera direi corretta ed alla fine se io fossi stato nei suoi panni, probabilmente mi sarei comportato nella stessa maniera, per cui, per quanto mi riguarda: Kriminal…….riabilitato a tutti gli effetti. Almeno secondo me.

Mi butto in branda sfinito come il solito dopo una guardia, si spengono le luci dopo il silenzio, una debole luce notturna mascherata da una plafoniera dipinta di blu scuro rimane accesa per la notte, accendo la candela fuori ordinaza che sovrappongo con due gocce di cera ad una delle gambe della testiera della branda, quella di destra, mi accendo l’ulteriore Nazionale ovviamente “Esportazione”, con filtro (pacchetto bianco, un timone stampigliato sopra), leggo due paginette di un romanzo di Steimbeck, “Uomini e topi” se non rammento male, la fiamma tende a spegnersi per il vento che libero ed impetuoso soffia di buona lena nella camerata della Mortai,  cosicché la luce diventa talmente tremula da innescare l’effetto ipnotizzatore, la palpebra si fa così pesante da non poterla più controllare, per cui desisto dalla lettura e mi inoltro sempre più in affondo allo strato di coperte che oramai aveva raggiunto il numero di quattro unità più cappotto, il tiepido tepore mi avvolge gradualmente, le noche delle dita, sbucciate e incrostate di sangue mi bruciano, le succhio maledicendo il Fal Alpino, spengo con un soffio la candela che ugualmente si sarebbe spenta prima o poi per il vento che tira….e chiudo l’occhio.

Sprofondo in un sogno popolato di cartucce vermiformi e Fal Alpini che antropomorfizzati, simili a figure di cartoni animati, mi fanno le boccacce esibendo sconciamente le proprie scatole di scatto come fossero i loro protuberanti sessi .

Nella prossima puntata, parliamo di Marano Lagunare e della fine del 1966.

San Marco!

 

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Subject: 14ª puntata "Racconti di naja".
Data: Mer, 15 Giu 2005

La quattordicesima puntata va in scena.

L’alluvione e conseguente ribollimento delle acque anche interne delle varie lagune del nord-est, fanno si che anche la Base Natanti che il Reggimento ha  alle sue dipendenze a Marano Lagunare e che viene  seguita dall’ “Isonzo”, subisca dei suoi sconvolgimenti.

Si dice che uno dei LVTMK4 che erano all’interno della Base, abbia “rotto gli ormeggi” durante la piena e sia scivolato rompendo un pezzo della mura di cinta, se ne sia andato “alla seconda”, seguendo la marea in calo cosicché veniva recuperato in seguito ad una discreta distanza dalla Base;

si dice che quei pochi LVTMK4 che avevamo colà, siano stati poi caricati e portati a Cà Vio (non si sa mai, un'altra piena…), si dice che quello fu l’inizio della fine della base di Marano Lagunare e che da allora in avanti sarebbe rimasta deserta e poi dismessa.

Noi, ultime ruote del carro, andavamo avanti solo per i “si dice” veri o falsi che fossero, per cui non garantisco che quello che riporto sia poi effettivamente avvenuto: in quel momento a noi semplici Lagunari, questo veniva dato sapere, cioè niente! Una sera guardo la tabella servizi e vedo il mio nome collegato a Marano Lagunare.

Chiedo: mi dicono che c’è da far la guardia ad una piccola base dove all’interno sono parcheggiati quei mastodontici e strani carri di cui avevo visto un esemplare una volta da lontano, in officina, appena arrivato.

Mi spiegano che si mangia e si dorme in Caserma della Guardia di Finanza e che i turni ci permettono una grande libertà, quindi la possibilità di vivere quasi civilmente in mezzo alla popolazione del luogo.

Immagino il giorno dopo di trovarmi con un nutrito gruppo di altri Lagunari per una specie di “cambio guardia” ed invece mi presento alla carraia dove mi aspetta un Sergente e non vedo altri compagni d’avventura.

Il Sergente mi chiede se sono io quello comandato per Marano, gli dico di si, carichiamo le nostre masserizie in “Campagnola”, (ovviamente si partiva sempre alla ventura in “assetto da combattimento” con tanto di FAL ed elmo al seguito) ma mi avvertono di portare via anche la divisa da “libera” perché serve quando non si è di servizio.

La cosa fa sperare bene quindi aggiungo uno zaino contenente la divisa da “Libera” e ce ne partiamo in “Campagnola” alla volta di Marano Lagunare.

Tra parentesi, in detto tragitto, mi rendo conto che se le Fiat Campagnole erano tutte così, mamma mia che malriuscito automezzo aveva sfornato la fabbrica torinese: facemmo tutto il viaggio in una continua ondulazione da destra sinistra che l’autista non riusciva a dominare: come correggeva a destra doveva già impostare la contro correzione con il volante, sulla sinistra. Un andare allucinante.

Dopo poco arriviamo: annuso subito l’odore dell’aria.

Poco prima d’entrare nell’abitato di Marano, percepisco immediatamente il sentore della laguna, i profumi del mare poco distante, i tanfi solforosi delle secche e delle “velme”, individuo  subito che l’aria sa di “freschin”e di gasolio, cose che mi dicono esserci collegamento con la pesca; vedo i piccoli edifici quasi tutti nuovi all’entrata del paese, segno di un fresco benessere, ma subito dopo seguono le classiche costruzioni basse e dai sgargianti colori pastello così comuni nell’istmo lagunare in Pellestrina, San Pietro in Volta, Sottomarina e poi a Burano e a Treporti, ma anche nel centro storico di Caorle e nei paesetti turistici della costa istriana: sono le costruzioni semplici delle basse ed umili casette dei pescatori della mia terra.

Mi sento subito a mio agio e la mente corre con nostalgia alla mia Chioggia, amata e persa dove non ritornerò stabilmente mai più.

Scarichiamo gli zaini ed armamento presso un bel edificio verdino a tre piani mi sembra, dove si evidenzia bene la scritta “Guardia di Finanza”; al terzo piano ci assegnano un cameretta a due letti per il Sergente ed io, metto il Fal ed elmo (mod. M33), sotto il letto, mi sistemo un poco il posto branda che branda non è ma letto vero con vero materasso e vere lenzuola. Rimango allibito di tanto lusso inaspettato.

La prima cosa da fare, e guarda caso (sempre con le mani nella m…a, sotto la naja), e recuperare gli avanzi del pranzo precedente, poi passiamo in macelleria a recuperare due begli ossoni di manzo e c’incamminiamo con tale malloppo, a piedi verso la sconosciuta (per me) Base Natanti.

Il sergente è un veterano di Marano e sa tutto e conosce tutti e tutti lo salutano con cordiali battute e rispetto.

Intanto strada facendo esamino bene ‘sto paesetto; in effetti scopro (ma ne avevo già l’intuizione) che trattasi di paesetto di pescatori: reti ad asciugare, qualche familiare bragozzetto ormeggiato, diversi piccoli e medi moderni pescherecci, il mercato del pesce all’ingrosso, osterie dove “battono la carta” un nugolo di vocianti pescatori “scaldati” dalla competizione del gioco e di più dai litrozzi di rosso che vanno e vengono.

Belle ragazze che occhieggiano, un ponte di ferro, la chiesa, le viuzze strette classiche lastricate di una palladiana di basalto da poco posta, un cinemino, e torreggiante una fabbrica di tonno in scatola che si trova addicente alla nostra via da percorrere.

Quasi perdiamo di vista le case dietro di noi, quando appare un muro di cinta bianco che nasconde al viandante tutto quello che vi è all’interno.

Il Sergente apre  il cancello con la sua chiave, e subito vediamo arrivare a razzo un imponente pastore tedesco che ci salta addosso in una maniera commovente.

Non ci sbrana, non ci morsica, cerca di leccare i visi e le mani: che conosca il Mao ed il basco nero dei Lagunari? E’ probabile, penso.

Gli somministriamo il “banchetto” riservatogli, gli diamo una bella riserva d’acqua e il bestione gentile si dedica immediatamente alle cibarie.

Chissà che fine avrà fatto quando chiusero la Base.

La base e deserta, non c’è niente al di fuori dei qualche branda nuda alla bene e meglio in equilibrio su altre povere masserizie d’ordinanza, una cucina qualche armadietto aperto, due sedie e qualche tavolo: tutto è stato sommerso dall’acqua del 4 Novembre, tutto infangato, tutto inagibile.

In effetti, di LVTMK4 non v’è l’ombra e altresì ad avvalorare la tesi che uno di questi se ne sia andato via  zonzo per la laguna, si vede il cancello che immette nella canaletta antistante la base, sbilenco chiuso con un filo di ferro e un pezzo del muro divelto da qualche cosa di estremamente pesante.

Ma questa è sempre una teoria dell’ultima ruota del carro che mette assieme i vari “si dice” e poi ne fa un riassunto.

Il Lupone teutonico, dopo il lauto pranzo, è disteso a panza all’aria al timido sole novembrino, ci segue con lo sguardo di un occhio aperto e l’altro chiuso, cosa poi andremo a fare in giro per il suo regno, sembrava chiedersi; dopo che il Sergente ha controllato chissà che cosa dato che non c’era niente da controllare, ci dirigiamo al cancello dove già troviamo il cagnone ad attenderci, ci fa pena lasciarlo la da solo con quell’occhio giallo triste e umido e l’uggiolio dispiaciuto della nostra partenza, ma tant’é e lì doveva rimanere: “domani ti portiamo un osso che vedrai che roba…”.

Il poter fruire di vitto ed alloggio nella Caserma della Finanza, aveva il suo pedaggio da pagare.

Il Sergente mi presenta ai padroni di casa, i Finanzieri sono cordiali ed impegnati negli affari loro: mi dicono subito che loro fanno da mangiare ma io lavo i piatti per tutta la comunità, devo pulire qualche cesso (due per la verità), e devo dare una lavatina ai pavimenti quando me lo dicono loro. Per il resto si vive come loro.

Il patto mi sembra più che equo, (altre scelte non ne ho, comunque), loro, saranno una dozzina si fanno di quei manicaretti che in caserma li sogni solo di notte: mangio come un allupato quasi il doppio di tutto.

Un Finanziere che porta la divisa classica blu della marina, mi prende in buon occhio e mi scarica sigarette di contrabbando, alcune bottiglie di liquori greci e slavi (“ouzo” all’anice e “slivovitza” alla prugna), mi regala un sua giacca vento usata ma ben messa (le giacche a vento della Finanza erano tali ed uguali allora, alle nostre), vuole che giochiamo a carte assieme probabilmente perché vince – io sono negato per le carte -  quasi sempre lui.

Ogni tanto mi faceva scuola sulle donne e ogni volta tirava irrimediabilmente fuori l’ABC dove nel paginone centrale era ritratta una Cover- Girl con un posteriore mirabolante e sontuoso, sicché mi si metteva a disquisire di questa parte anatomica femminile, per ore. Simpatico personaggio.

In dieci minuti mi sbrigo della “scafa”, una scopatine qua e la, e poi via a far niente su e giù per Marano.

In quindici giorni che rimango li, pulisco i due cessi due volte, e lavo due volte per terra nell'ufficio del Maresciallo Comandante della Stazione di Guardia di Finanza.

Il resto lo passiamo, il sergente ed io (e anche qui non mi ricordo assolutamente come si chiamava ‘sto tizio), tra passeggiate alla base a portar da mangiare al “Tedesco”, interminabili partite a scala quaranta  in osteria, ore di televisione, approcci con le ragazze del luogo (per altro graziose e molto simpatiche ma direi anche molto “attente”), che promettevano bene ma non si sbilanciavano mai…,

il cinemino alla sera più che altro per collegarsi con i gruppi di giovani e giovinotte…e alla via così.

Una mattina il Sergente se ne stava poco bene, a letto per cui andai da solo in Base a portare l’alimento alla “belva”, ma non prima di essermi fatto un giro dove arrivavano – a quell’ora erano quasi tutte in porto, ma qualche ritardatario c’era - le barche dalla pesca.: era la “mia” atmosfera, la riva intasata di curiosi, le casse ancora fatte di legno che contenevano saltellanti “sardoni”, qualche “barbon”, colori solidi, i blu delle fiancate dei pescherecci, il nero dei bragozzi, il rosso delle triglie, l’azzurrognolo delle sarde, le macchie grigio dei sacchi di vongole, i maglioni  variopinti dei pescatori, il cielo di un azzurro abbacinante, il verde – azzurro dell’acqua del canale.

Una festa di colori ed un immenso e struggente ricordo delle mie radici.

Il cagnone, quando arrivo fa le feste, mangia con avidità e poi per tutta la mattina, ci gioco assieme: il bestiolone è come elettrizzato: gli lancio un pallone recuperato dalla riva del canale e lui me lo riporta mi si strofina addosso con il testone appuntito, guardo fuori della base e vedo solo strada deserta, voglio fargli fare un poco di libera uscita e lo chiamo fuori.

Non sta più in se dalla contentezza: corre saltellando come un matto, abbaia, ai gabbiani, si diverte e ne sono contento, “poro can”.

Passa un camion ed il mio amico a quattro zampe comincia ad abbaiare e a corrergli dietro: mi scappa dietro il camion e non lo vedo più. “boi d’n mond leder…”.

Comincio a sacramentare e correre come un centometrista, c’è un bar con una bici fuori, inforco la bici (penso che mi denunceranno per furto di bici ma meglio forse così che perdere il Cane Lagunare), scatto e arrivo in uno spiazzo dove il camion è fermo, l’autista dentro che non osa aprire la portiera, ed il buon cagnone che gli ringhia e mostra degli spaventosi ed acuminati dentacci poco amichevoli.

Lo abbranco per il collare e me lo tiro dietro, l’autista scende con i capelli dritti e mi manda a ca..re, ma poi gli spiego ed allora bonariamente mi da un pezzo di corda con il quale faccio un guinzaglio improvvisato e mi porto al piccolo trotto la belva pedalando di buona lena sin dove o “preso in prestito” la bici.

Non vedo nessuno, ne forze dell’ordine ne civili: metto giù la bici senza che nessuno si accorga di niente e poco dopo arrivo alla base con l’animale che ha la lingua penzolante ma tutto euforico e direi “sgranchito”. Lo rimprovero “aspramente”, lui mi guarda con quelli occhioni malinconici e “furbettini”, ha la lingua tutta fuori e la coda che spazza ritmicamente il marciapiede: mi vien da ridere, e gli faccio due o tre carezze ruvide tra le orecchie puntute.

Quando ritornai al battaglione, mi ci ero affezionato e fui un po’ (molto), dispiaciuto di questa separazione. Alcune settimane dopo il congedo, in Bianchina Innocenti Station Wagon (allora si diceva in configurazione giardinetta) con la morosa, ritornai da quelle parti in un giretto domenicale, chiamai e richiamai (il nome del pastore tedesco non me lo ricordo più ora), in attesa, con le mani aggrappate al cancello. Attesi: non arrivò nessuno.

Rientrato al battaglione dopo questa “parentesi di vacanza” a Marano Lagunare, me ne vengo a casa in “trentasei” prima di partire per un altro turno di “guardia ai forti”.

Vado da Villa al “paesello” in autostop.

Trovo per la terza volta consecutiva allo stesso orario, un trasportatore di giornali, “il Piccolo di Trieste” ricordo, che porta alcune balle di quotidiani in territorio veneto; ha un Opel furgonata ed oramai ci diamo del “tu”.

Mi racconta i prodigi dell’alimentazione a GPL; mi fa sentire i cambi d’alimentazione al volo, mi relaziona sul risparmio di tale alimentazione, fila via come un treno, uno che con l’acceleratore ed il freno ci sa fare, in poche decine di minuti mi sgancia a Latisana, “ci vediamo alla prossima…”, poi altra gente motorizzata che vede la divisa e quindi rassicurati si fermano, in un’oretta e mezza sono ancora nel mondo civile.

La sera della domenica per il rientro a Villa, mi faccio portare alla stazione ferroviaria di San Donà di Piave e prendo un convoglio che va a Trieste attorno alle 21,00 .

Le carrozze sono sempre piene, gli scompartimenti sono zeppi di turco - serbo - bosniaco – montenegrini: pochi giuliani e molti i balcanici.

C’è un fumo nebbioso di tabacco economico, una puzza di umanità sudata e sporca, sentori di aglio e spezie orientali, zenzero, cumino e coriandolo o chissà che altro e che non mi sono mai state congeniali: mi estraggo il seggiolino di fortuna nello scomparto d’accesso dove gli effluvi di tale umanità d’ “etranger” sono meno avvertibili e m’appisolo calandomi il basco sugli occhi (sugli occhiali, in verità); non serve che mi concentro perché in quel periodo di naja avevo sviluppato una mia metodica per addormentarmi in automatico: bastava che pensassi ad una notte di guardia e tutto diveniva facile: in un paio di minuti ero già che andato.

Mi sveglio di soprassalto perché sento che sto per perdere l’equilibrio e cadere dal seggiolino, recupero la stabilità ed  alzo il basco e vedo di fronte a me due raffinati cappotti militari: raffinato è indice di presenza d’Ufficiali; alzo lo sguardo e vedo subito “stellette dorate”;

la prassi avrebbe voluto allora, che scattassi sull’attenti e salutassi, ma…….ma in quel momento, io che sono sempre stato ligio al regolamento,…. chissà perché, non ne avevo voglia.

Per cui, presagendo “rogne”, incomincio una pantomima da vero teatrante, con stiracchiamenti e sbadigli, dopo di che faccio finta di notare ed accorgermi degli Ufficiali che mi guardano in silenzio.

Sono due Sottotenenti non so di quale Specialità o reparto, non calzano il basco “canoa” ma hanno il berretto con la visiera; mi guardano e proprio per non apparire un maleducato con la patente, azzardo li, un flebile ed affaticato “buonasera”, sempre senza alzarmi.

Questi compuntamene mi rispondono con un formale “buonasera”, (adesso arriva la cazziata, immagino), noto che guardano insistentemente le mostrine con il Mao che ho sui polsini del paltò e tra loro sottovece borbottano, poi uno mi fa “Scusi…..ma lei di che corpo è? Non abbiamo mai visto  mostrine simili a quelle che lei porta, sempre se sono mostrine che poi vediamo, lei neanche le ha…ma al bavero solo stellette…di che Specialità e lei?”

Capisco che due Sottetenentini sono più impacciati di me e non hanno proprio per niente la “ghigna” dei nostri ufficiali. Tra parentesi mi danno del “lei” cosa inaspettata e strana….

Dico: “…ma le mostrine sono queste” ed indico i due Mao sulle maniche “noi Lagunari portiamo le mostrine qui” faccio io con muso da schiaffi “ sa… i Lagunari hanno usi e ed insegne molto particolari e differenti dalle comuni “can…”  m’interrompo al volo e convergo su di un più opportuno “ delle altre Specialità”.

“Ha….i famosi Lagunari…” fa uno e l’altro gli fa eco “Perdinci! Sa che da noi (fa il nome, chissà quale, di un reparto con sede attorno a Gorizia), si parla con molto rispetto dei Lagunari”.

Ci mancava anche questa e non mi serviva altro: mi lancio su di un tale infiorato e strabiliante “escursus” sui Lagunari che i due Sottotenenti iniziano ad aprire la bocca sempre di più e più vedo che sono impressionati di quello che gli racconto, e più ci do dentro sparandone di tutti colori;: “e noi facciamo questo….e noi facciamo quello…..addestramento disumano...disciplina ferrea…battaglione di punizione, il mio, l’ “Isonzo”…la laguna, i mezzi anfibi…gli sbarchi….la Pepe al Lido…i Fanti da mar…”

E via così quasi fino Cervignano.

I due ogni tanto si guardano, come dire “hai capito questi che personaggi sono”.

Ci gongolo a più non posso ed intuisco che mi considerano sempre con più rispetto, con più curiosità.

Arriviamo a Cervignano che oramai sono frementi perché purtroppo certe cose manco se le sognano dove svolgono l’abituale servizio e noi Lagunari……si sa …..le viviamo tutti i giorni.

Ci salutiamo cameratescamente, come io fossi un loro parigrado, mi fanno gli auguri, ci diamo la mano e poi io li saluto militarmente (e ci mancherebbe altro!), gli dico che se passano per Villa Triste vengano a vedere chi sono i Lagunari del Rgt. “Serenissima” e soprattutto del Btg. Anf. “Isonzo”.

Da allora mi sono fatto una convinzione sui Lagunari (in servizio), che mai abbandonerò.

E non la dico, perché chi vuol intendere, intenda!

Porcaccia la miseriaccia, manco a dirlo, sono inserito nel gruppo che si fa le Festività di guardia ai forti: il primo che asserisce che la mia naja non è stata una naja da “guerriero”, gli sputo addosso, brutta ed infima progenie di raccomandati, serpi striscianti e creature del diavolo e della piaggeria più subdola, imboscati e leccaculi, dannata razza  di turpi creature dette “lingue d’amianto”, vi odio!

Tutto quello che vi risparmiavate voi rimaneva da fare a noi: maledetta razza di parassiti e profittatori, vi odio!

Solito imbarco sul CM con l’aggiunta nel nostro bagaglio personale, con tutto quello che poteva servire per indossarlo durante le lunghe e fredde notti di guardia; non si va più a Gambarare ma a Tessera proprio dietro l’aeroporto: verso Mestre appena passato il ristorante “da Mario” (oggi si chiama Flyhotel), si volta per Favaro Veneto ma fatto neanche un chilometro ci si inoltra  a destra per una stradina che conduce ad un altro di quei forti che immagino facciano parte della famosa otto/novecentesca “cinta fortificata di Mestre”: minuscolo corpo di guardia, cucina/mensa, cesso, un paio di camerette dove trova collocazione tutta la combriccola escluso il Sergente Capo Guardia che ne ha una tutta per lui.

Senza accorgermi imbrocco di posare l’affardellamento  sulla branda vicino alla stufa da riscaldamento; mi piazzo e visto che non sono subito di turno andiamo a farci un giretto per capire il luogo: al centro la solita affascinante e lugubre costruzione fortificata attorniata da baracche tutte uguali che hanno la caratteristica di avere il tetto ingabbiato in una struttura metallica ed è ovvio che tutti capiamo che quello è una specie di parafulmine per cui è altrettanto ovvio che all’interno delle baracche potrebbe “sottolineo, potrebbe al condizionale e non può” esserci dell’esplosivo o del munizionamento; tutto attorno vi è un camminamento perimetrale che congiunge le varie “altane” di guardia (torrette cilindriche con riflettore, semichiuse poggianti su pali di cemento alti un quattro/cinque metri).

Quello sarà il nostro regno per i prossimi quindici giorni.

Il ghiaccio, in pieno pomeriggio non si è ancora sciolto nei punti in ombra posti a nord, la bruma comincia ad alzarsi da fossi nei campi neri di zolle dure e compatte. L’umidità è notevole e già ci fa presagire turni “sfiziosi”.

Mi vesto per il mio primo turno: “oso” tre paia di calzettoni che ritengo per altro eccessivi, un paio di maglioni più mimetica più giacca a vento, mi sembra che sia sufficiente.

Faccio un mezzanotte/due del mattino: salgo sull’ “altana” e il silenzioso drappello al quale ero accodato scompare nel buio per andar al prossimo posto di guardia; scruto l’oscurità, l’occhio si abitua al buio, s’intravede dall’alto qualche fioca luce tremolante sopra le folate di nebbia, strizzo gli occhi ma non riesco a capire cosa ho davanti a me. Forse un campo, forse un boschetto o magari anche qualche casa che non vedo; armeggio con il riflettore: e ti pareva che funzionasse!

Ah…. Esercito Italiano pieno di Generali e senza una minchia di lampadina……

La prima mezzora passa via discretamente, poi i piedi cominciano ad avvertire i “diavoletti”, cambia il tiro dell’aria ed una brezza gelida s’insinua dalla parte dove non c’è protezione nel cilindro di cemento armato: mi rannicchio nel concavo della protezione ma pure lì il vetro è mancante!

Ah …Esercito Italiano pieno Auto Blu e senza un cacchio di vetro per le altane!

Dopo un’ora sono alla disperazione: alzo baveri, mi metto il fazzoletto lagunare come una vecchina, annodato sotto il mento per non gelarmi le orecchie, mi calco il basco all’inverosimile sopra le sopraciglia, mi lego stretto il cappuccio della giacca a vento, guanti di lana e mani affondate nelle tasche, Garand appoggiato al parapetto, comincio a saltellare per dare calore ai piedi.

Ripenso al fatto che ho calzato tre paia di calzettoni e già sono in quelle condizioni, fumo ed ogni tanto mi scaldo le dita attorno alla brace della sigaretta: è passata un’ora e mezza; sento un sibilo inquietante dietro di me e quindi immediatamente un fischio ed un rimbombo.

Al momento non me ne rendo conto e mi guardo attorno scrutando allarmato sopra le cime degli alberi, ma poi capisco perché vedo delle luci che salgono nel cielo, che quelli non sono Ufo, ma gli aerei che se ne vanno da Tessera verso gli orizzonti di qualche spiaggia tropicale.

I decolli e gli atterraggi delle filanti siluette aeree, saranno quelli che mi terranno compagnia per tutto il tempo che rimarrò appollaiato su ‘sti artifizi a far la guardia a chissà che cosa.

Finalmente sento che arriva il cambio: non ce la faccio più, non sento più i piedi, sono congelato, non riesco manco a fare la discesa dalla scaletta dell’altana, ho una notevole difficoltà a muovere le ginocchia.

Facciamo il giro per recupere gli altri “ghiaccioli” che bestemmiano e maledicono le Forze Armate,

“..i so morti... me digo che pisso spaghetti…”, “…i so scabei, ho el giasso sue sege…” e via così fin che arriviamo al corpo di guardia.

La mia branda mi attende vicino alla stufa, mi levo gli anfibi e calzettoni e incollo i piedi sulla stufa: non sento neanche il caldo, poi dopo una decina di minuti sento i piedi che ritornano presenti ed il calduccio mi avvolge e rimago stecchito così a dormire per le prossime quattro ore.

Dopo il secondo turno, al rientro chiediamo se non sia possibile usare dei vecchi mantelli che sono appesi in un armadio.

Il Maresciallo Comandante della Polveriera dice che sono li per quello, li requisiamo e vediamo come si potrà vestirsi per il prossimo turno: ne esce questa incredibile ma reale combinazione: quattro paia di calzettoni che ovviamente c’impediscono di far entrare i piedi negli anfibi; dopo varie insistenze i piedi entrano ma i lacci debbono essere tenuti larghi; mutande lunghe in lana spessa portate da casa, pantaloni in panno della divisa da fatica, pantaloni della mimetica, canottiera personale, canottiera della naja, maglia privata “folpata” come diceva Rumor di Venezia, camicia della naja, maglione – pullover della naja, giubbetto della divisa da fatica, giubba della mimetica, giacca a vento, pastrano – mantello in panno grigio verde (retaggio suppongo della prima guerra mondiale), con cappuccio conico e allacciatura al collo con lacci, mutande tattiche che nessuno usava mai, infilate a mo’ di passamontagna per proteggere sommariamente orecchie e bocca/naso.

In quelle condizioni facevamo perfino fatica a camminare sino all’altana e salire la scala in ferro e poi discendere diventava un’impresa, però i segni di congelamento si facevano sentire non dopo una mezz’oretta, ma bensì dopo un’oretta: rimaneva comunque per la seguente ora, uno stato di semi assideramento che ti forava le budella.

Come passavi il tempo?

I generalmente cantavo e suonavo al chitarra con la bocca; dopo la chitarra mi veniva bene la cornetta, poi ogni tanto parlavo con qualche immaginaria presenza, seguivo gli aerei che loro si, liberi e svettanti, se ne andavano dove volevano.

Da leggere non se ne parlava neanche perché nessuno spendeva soldi in libri, giornali o letture varie.

Una occhiata al contorno, qualche rumore strano, ti faceva tirare le orecchie od aguzzare la vista, avevi sempre il timore di scorgere qualche malintenzionato che volesse entrare nella polveriera (che poi suppongo, fosse stata vuota), cominciavi allora, ad armeggiare con il Garand.

Una bella mattina di sole mi decido, gli schiaffo dentro il caricatore e comincio a scarellare divertendomi a veder uscire le cartucce: l’ultima invece di fare il tragitto contro il parapetto di cemento dell’altana, ci passa sopra e mi va a finire fuori del recinto del forte dentro il fosso in mezzo a dei folti cespugli d’erbacce. Tiè!

Arriva il Sergente, glielo dico, mi appioppa un paio di “mona”, due o tre “cojon”, poi si calma ed organizza una spedizione per recuperare il proiettile smarrito: il Sergente, altri quattro più io, cominciamo a setacciare all’esterno della polveriera il posto ma, niente da fare.

Mi viene in mente che nei film polizieschi, per setacciare con metodo i posti erbosi, vengono tirati degli spaghi per fare una specie di reticolo ed ogni uno si esamina il suo, granello per granello e poi avanza in un altro: dico la mia, il Sergente dice che è una buona idea; sradichiamo delle canne e impostiamo ‘sto reticolo: dopo una mezz’oretta  il rinvenimento proprio dentro la melma del fosso nel quale la cartuccia era affondata e solo vedendo che il ghiaccio era forato ad uno di noi venne l’intuizione che la maledetta fosse li sotto. E così fu!

Il Sergente mi fa promettere che quando vado fuori dal forte per il mio turno di otto ore, porto dentro da bere per tutti e tirando il fiato ce ne torniamo soddisfatti al corpo di guardia.

Si passavano anche ore serene ed allegre. Il cameratismo era al massimo e a parte i quattro ebeti (in forma amichevole), generalmente cittadini della Serenissima che dovevano per forza parlare anche per il didietro o rompere le scatole a chi stava riposando dopo il turno, la vita in comune in ‘sto sgabuzzo terrificante, correva via anche con i suoi lati positivi.

Un giorno scopriamo che abbiamo una riserva di pasta da far spavento. Un’acuta osservazione dell’addetto “cogo” ci fa optare per addivenire ad uno scambio con il contadino confinante: noi gli diamo la pasta in eccesso e lui ci ammolla due bei pollastroni giganteschi e di cortile.

Dopo la triste ma ineluttabile “tirata di collo” e capovolgimento a sgocciolare il sangue, spennatura e varie, si dividono le due povere bestie in ottavi usando la baionetta del Fal con paurosi fendenti sin che si riesce ad intrudere il tutto in una “pignattona” già riempita d’acqua e sale, di cipolle, sedani, e carote.

E vai che va, il sontuoso e ruspante “lesso” continua a borbottare per tutta la mattina .

E ‘sto bollito lo mangiamo così, semplice semplice?

Il “cogo” ha un’idea fulminante: facciamo un’insalata di pollo!

Uno parte e quatto quatto va in paese nel negozio alimentari: un congruo numero di filoni di pane integrale, un bel vasotto di maionese, capperi, olive e sottaceti, un bella bottigliozza  di “Brandy” e quant’altro atto alla “magnata”.

Dunque, sono le sette di sera circa: iniziamo con una “scafa” a testa di conchiglioni innondati di un ragù di lepre pur se precotto, di grande impatto gastronomico, ingurgitato con simil-medioevali boccali di rosso Piave marca Pavan “Tappo Corona”; finito il primo, il “cogo” ci schiaffa sopra una tavola disadorna e senza tovaglia, una gigantesca terrina con ‘sto ben di Dio di insalata di pollastro ruspante: una montagna straboccante di roba.

Quando finimmo non avevamo neanche il fiato per parlare; fuori era buio pesto, un vento freddo in qui sfrecciavano piccole “falive” di una neve che non voleva iniziare a venir giù, noi tutti attorno alla tavola a grattarci la pancia satolli e rinfrancati, la stufa che andava a mille all’ora ci sembrava d’essere in un mondo irreale; uno attacca a cantare “Se non ci conoscete guardateci sul basco….”, l’altro innalza i calici…. E coroniamo il tutto con la deflorazione della bottiglia di Brandy; siamo nel bel mezzo del secondo brindisi, quando la porta si spalanca ed entra uno del turno di guardia: cavoli!

Abbiamo sforato di venti minuti: questo s’incazza, con gli occhi fuori delle orbite sibila “Ho! Buei marsi, ghe vol ancora tanto che vegnì a darne el cambio?”

Rapidi e scusandoci costernati al piccolo trotto andiamo a dare il cambio e prenderci le nostre, ma assicuriamo che è rimasta ancora una buona metà dell’insalatona di pollo per cui la cosa si mitiga e addirittura ci si tira qualche pacca sulle spalle.

Mi faccio le mie due ore intontito da tale gigantesca  “ingozzata”, che alla fine mi siedo sul pavimento dell’altana e mi schiaccio un pisolino non propriamente militare: mi sveglio una mezz’ora prima del cambio, comincio a cantare com’era mio solito fare; intono “Stella d’argento che brilli lassù, mi guardi e ridi….”, mi ci applico a gola aperta…eda sotto l’altana scoppia un applauso d’ilare apprezzamento da coloro che zitti zitti, erano silenziosamente venuti a darmi il cambio.

Rosso dalla vergogna per non averli sentiti arrivare, tra frizzi e lazzi “ ciò..el Santercole de Jesolo..casso!”, me ne vado abbacchiato in branda a sonnecchiare sino il prossimo giro di tango.

La sera di Natale 1966, verso le sette, sto pisolando quando mi dicono che alla sbarra c’è gente civile che mi vuole: mezzo arrabattato tra maglie e mimetica mi precipito alla sbarra e scorgo un mio cugino, un suo amico e una ragazza che avevo conosciuto qualche tempo prima; mi scaricano dalla loro vettura un tre bei panettoni marca Alemagna al tempo, uno scatolotto con un paio di confezioni di datteri tunisini due vasetti di mostarda piccante ed una torta di mele che la mia cara zia aveva all’uopo preparato, il tutto accompagnato da tre belle “bosse” di Asti Moscato Gancia.

“Ma come avete fatto a sapere che ero qui?”, e loro: “il papà (mio zio), è amico del Maresciallo Comandante della Stazione dei Carabinieri e mediante lui che ha telefonato all’ “Isonzo”, abbiamo saputo che eri a Tessera. Il Maresciallo ha fatto tutto lui e ci ha detto che potevamo venire qui a trovarti e già che c’eravamo abbiamo pensato di portare un po’ di roba anche per gli altri”.

Dieci minuti d’intimità con ‘sta ragazza che era venuta a trovarmi; gli altri sghignazzavano dal corpo di guardia, baci ed abbracci, il Maresciallo Comandante della Polveriera mette fuori la testa da casa sua e urla che quello non era un albergo, ci salutiamo e ci auguriamo Buon Natale.

Nella nostra stamberga di corpo di guardia, lampadina penzolante dal soffitto innestata in un paraluce stile anni ’30, sventriamo gli involucri dei panettoni, apriamo i datteri, spalmiamo la mostarda piccante e ci stappiamo il Moscato: spariscono i musi duri di chi stava a rimuginare che a Natale erano lì a far la guardia a chissà che cosa, si accende la radio, le musichette natalizie invadono l’angusto luogo, e giù tra fette di panettone e gamelle di Moscato, viva il Natale, viva “Gesù bambin che nasse..”, viva mi, viva ti, “…a noi la morte non ci fa paura…”, “anca ‘sto Nadal el se ‘ndà”.

A sorpresa, il giorno dopo Santo Stefano, arriva il cambio: cavoli, al limite del congelamento e della pazzia da “guardie”, ci facciamo l’ultimo dell’anno 1966 a casa!

Vi do appuntamento per il duro inverno di Villa.

San Marco!

Lagunare Dino Doveri

 

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Subject: 15ª puntata "Racconti di naja".
Data: Dom, 17 Lug 2005

É pur vero che mi sono imposto di finire questa storia, per cui bando all’accidia ed eccovi la quindicesima puntata dei miei “racconti di naja”.

Dimenticata con la licenza per l’ultimo dell’anno 1966, l’abboffata di freddo e gelo della quindicina di Natale di guardia ai “forti” (capirò poi che la mente ne era oramai sgombra ma il fisico stava perpetrando qualche cosa di losco), si ritorna in Caserma.

Solita “tradotta ” balcanica” tra San Donà e Crevignano del Friuli, freddo pungente sul solito comparto d’accesso al vagone, solite facce con barbe di due o tre giorni, di slavi, macedoni e turchi in trasferta.

Solita puzza d’umanità.

Questa volta per problemi di trasporto, parto da casa un tre quattro ore in anticipo e quindi arrivo alla A.Bafile con un discreto anticipo.

Domenica pomeriggio in Compagnia (ed in caserma), non c’è anima viva.

Mi corico sopra il “cubo” come sto, vestito, mi tiro addosso un paio di coperte e tento di dormire sino al momento della “sbobba”: non ce la faccio.

La camerata della Compagnia Mortai da 120 “Tobruk” è un congelatore.

Mi rannicchio e aggiungo un’altra coperta, ma niente da fare, brividi e piedi insensibili mi attanagliano il corpo e la mente.

Mi muovo un po’, vado a vedere se si mangia (più che altro per ingerire qualche cosa di caldo), ma come è noto in caserma, la Domenica sera il Ristorante “Mensa dei Lagunari Poveri di Villa Triste” è tacitamente chiuso oppure non funzionante per abitudine consolidata.

Ad una certa ora canonica, arriva gente alla spicciolata che rientra dalla “ventiquattro”, le solite quattro vaccate profuse a piene bocche: non vedo l’ora di infilarmi sotto le coperte.

Mancano due che non sono rientrati: il prammatico casino tra sergente d’ispezione e noi con due marroni così che non c’importa proprio niente di dove sono andati a finire questi due assenti, e finalmente “sottocoperta”.

Le coperte della mia branda oramai sono gradatamente nel tempo, giunte al numero di nove (sic!).

Sono coperte fatte di chissà che cosa, forse un misero tessuto simil - lanoso, sta di fatto che fanno di tutto:  puzzano, pungono, camminano da sole, ma il freddo non lo contrastano.

Dopo le solite contorsioni per non scomporre il rimbocco attorno ai bordi del materasso (modo come un’altro per definire il pagliericcio che fungeva da), con fatica mi c’infilo con cautela dentro.

I soliti venti minuti di “riscaldamento” e poi scivolo via nel sonno.

Durante la notte accuso sentori di influenza, manco vado a pisciare perché tale operazione significa il congelamento al cesso, batto i denti, stringo la prostata ed infine sembra che le cose prendano il verso giusto e mi addormento.

Il giorno dopo, e ti pareva, approdo ad un’ulteriore guardia.

Bestemmie (moderate e veniali), ed imprecazioni.

Brutti imboscati che Dio vi cancelli dalla faccia della Terra per tutte le guardie che ho fatto in più a causa del vostro “lecchinismo”!

Durante il giorno c’è un freddo foriero di una notte da pena.

Mi carico d’indumenti il più non posso, ma come si sa, per la guardia in Caserma, mica puoi stratificarti come un palombaro; all’ispezioni guardia montante ti controllano i peli sul didietro (inteso come natiche), e quindi la divisa deve essere sistemata alla perfezione: altro che quattro paia di brache!

Alle quattro smonto dalla “carraia” denunciando chiari sintomi di febbre.

Segnalo la cosa al Caporal Maggiore che funge da Capoguardia: chiedo d’esser esentato dalla guardia e venire ricoverato in infermeria.

Il suddetto mi manda a ca..re, se ne sbatte altamente, mi dice di non rompere, e mi ordina di andare a fan… in branda….del Corpo di Guardia. La solita copertina di simil – lana e cappottino allacciato, di guardia si dorme vestiti, il dormitorio del Corpo di Guardia è a temperature polare ed i vetri delle finestre rivelano concrezioni stellari di brina notturna e ghiaccio.

Quattro ore da incubo: batto i denti, vedo San Marco assunto in cielo, aureolato e benedicente, con il Leone Alato al Suo fianco, ho le “caldane”, mi alzo in cerca di bere qualche cosa di caldo (o di freddo), ardo e intirizzisco.

Faccio il turno 06/08 in un incubo, rientro e chiedo d’essere messo a rapporto con il Comandante di Compagnia.

Alle otto e mezza mi chiamano per andare a rapporto dal Tenente Graziani.: spiego al Tenente, non molto chiaramente perché sto battendo i denti alla grande, che sto svenendo e che suppongo d’avere una febbre da cavallo, non dimenticandomi però di sottolineare il comportamento obbrobrioso che il Caporal Maggiore Capoguardia, durante la notte, aveva tenuto nei miei confronti.

Il Tenente è diffidente, mi valuta e di primo acchito non crede che ho resistito tutta la notte nelle condizioni descritte: mi spedisce assime al Caporal Maggiore “testina”, in infermeria per misurami la febbre non prima d’avermi avvisato che se avessi finto, era C.P.R.

In Infermeria colui che funge da infermiere, mi riscontra uno strabiliante 40,2!

Ritorno in fureria ed il C.M., rosso in faccia e mogio mogio, riferisce la gradazione di febbre riscontratami.

E qui, cari colleghi che mi seguite, mi sono reso conto che tipo d’uomo e d’ufficiale fosse il Signor Graziani.

Il C.M. subì uno di quegli “spezzatini” che si sentì urlare sino alle Armerie per un quarto d’ora; zitto zitto con il piedino che disegnava cerchi per terra, prese atto che gli veniva comminata una punizione piuttosto severa e quindi spedito via in malo modo al Corpo di Guardia.

Il Tenente Graziani mi accompagna personalmente all’Infermeria di fronte alla Compagnia, mi fa portare delle bevande calde, telefona all’Ufficiale Medico di venire urgentemente a vistarmi e mi augura buona e repentina guarigione.

Il Medico mi ammolla, constatando il serio stato di patologia influenzale, una serie di pillole da ingurgitare tre volte al giorno, e per giunta mi infligge subito una puntura di chissà quale farmaco dirompente, perché mi ricordo ancora oggi, l’acuto dolore che mi pervase la gamba destra per un paio d’ore; mi dice che se do via di testa è normale (sic!) a quella temperatura, saluti e baci e buona permanenza.

Passai un paio di giorni pari pari, suppongo, ad uno “strafatto”: non riuscivo a camminare in linea retta, non pisciavo, non defecavo, sudavo come una bestia per poi piombare in brividi deliranti.

Al quinto giorno rinvengo: i miei amici Bari e De Prà mi portano da mangiare dalla mensa.

Chi trova un amico (vero, dico io), trova un tesoro.

Ed io il tesoro l’avevo trovato: alla sera venivano a trovarmi per farmi compagnia, mi prestavano la radiolina a transistor, mi davano una mano a deambulare sino al cesso ed altro.

Grazie Amici miei, vi sarò sempre debitore per tutta la vita.

La mia stima nel Tenente Graziani crebbe a dismisura e questo episodio fu il primo dei vari ove stabilii che di poche persone al mondo, io avrò grande stima ed ammirazione, come per quest’Uomo.

Dopo una settimana esco dall’infermeria e ritorno alla Compagnia: il freddo è intenso, quasi palpabile; non c’è un buco dove si può stare al caldo: fortunati gli imboscati che almeno se ne stanno in qualche buco al chiuso, che siano colti dalla dissenteria fulminante!

Mi chiama il Comandante di Compagnia, il Tenente Graziani: cosa avrò combinato adesso mi chiedo, ma non mi viene in mente nulla.

Vado in Fureria in allarme ed invece mi aspetta una buona notizia: il Signor Graziani mi fa: “ho chiesto personalmente al responsabile del Circolo (mi sembra che quel circolo fosse quello per i Sottufficiali ma potrebbe anche essere stato anche “unificato” perché vedevo anche Ufficiali), di farti stare un po’ li a dargli una mano; al circolo ci sono sempre delle stufe che funzionano e così te ne potrai stare un po’ al caldo”.

Io imboscato? Non sia mai!

Gli replico “Ma io non avrei mica tanta idea di andarmi ad imboscare come quei quattro “fiappi” che fregano pure noi; la cosa non mi sarebbe molto congeniale, vorrei rimanere in compagnia”

E questo di rimando “ tu te ne vai al Circolo per qualche tempo e poi vediamo; non vedi che hai le orecchie trasparenti e l’occhio da bassotto?”.

Un ordine è un ordine e me ne parto a malincuore per il Circolo.

Mi viene da arrossire: io, far parte degli imboscati?

Poi ci ripenso e mi dico che ho ricevuto un “ordine”, per cui moralmente sono un  I.I.C.B.S. cioè “Imboscato involontario comandato e a breve scadenza”.

Il Circolo è ubicato in una bassa costruzione in piazza d’armi sul lato destro tenendosi il Comando alle spalle.

Mi presento da Maresciallo responsabile, un Maggiore con i  capelli bianchi, occhialini d’oro (Coletti, può essere?),di cui adesso mi sfugge il nome preciso che è sepolto nella memoria, , camminata tentennante, piuttosto irascibile, chiuso e silente e mai visto ridere: mi mette al bar del circolo a fare il barista; a ore perse  scopo (con la scopa), e vado a dare una mano in cucina del circolo.

Quand’ero civile avevo fatto durante la stagione turistico – estiva, delle esperienze come barista più che altro per guadagnarmi una “paghetta”, e con i caffè e bibite avevo una certa confidenza.

Sto tutto il giorno li dentro, alla sera finisco e me ne vado il libera dopo gli altri, però rientro pure in ritardo senza che nessuno mi  “rompa”.

C’è sempre un bel calduccio e alla fine sento che mi sto rimettendo.

Quando ho finito con il bar, pulizie varie e quant’altro, vado in cucina a dare una mano: qui comanda una “tuba” (parigrado), di Sottomarina, certo Boscolo, niente affatto amichevole, scorbutico più che mai, e non si riesce a far amicizia; io ritengo che bisogna mantenere un atteggiamento “sotto le righe” e farsi gli affari propri senza “inserirsi”.

Imparo a fare il Ragù di carne, la Carbonara, la Pasta la Forno, le zuppe di verdura ed i bolliti e minestre varie; il Boscolo qualche volta si apre e si scioglie parzialmente ed allora se pure a gocce, mi trasfonde alcuni  segreti della culinaria.

A volte mi affida la cottura alla piastra delle braciole di maiale e delle bistecche; facciamo anche qualche bel pesce dove il Boscolo essendo di Sottomarina…. eccelle!

Comincio ad ingrassarmi: lo noto subito dai buchi della cintura: per mangiare, si mangia. Eccome se si mangia!

Il Francioso, il Sergente per antonomasia, che ha saputo subito che sono al Circolo, almeno un paio di volte la mattina ed una al pomeriggio, viene fare un’incursione alla dispensa con la scusa di fare  due parole: una mela, un panino con qualche cosa, un paio d’uova sode, un qualche cosa di commestibile saltava sempre fuori: “oh Francis…guarda che la roba è contata …dopo viene fuori un casino con il Maresciallo…oh, ma sei senza fondo?”

“Dai non rompere, tuba marcia, sgancia che ho una fame che non ci vedo…”

Mai visto una persona così magra ingurgitare tante cibarie senza nessuna conseguenza ponderale; avrà pesato un cinquantacinque/sessanta ma non dava cenni di oltrepassare tale limite: misteri del metabolismo umano!

Il passaggio dalla “sbobba” incredibile della mensa truppa, a tanto ben di Dio, mi esalta e ogni tanto ringrazio mentalmente il Tenete Graziani di tale cambiamento.

A metà mattina, il caffè dei marescialli: per tutto il tempo che rimasi dietro il bancone del bar, ogni mattina si ripeteva la stessa pantomima.

Arrivava il maresciallo Zara dall’officina; per prima cosa tentava di ammollarmi il solito sberlone preventivo sul “capocollo”  e non desisteva neanche una mattina da questa simpatica pratica se pure ero riuscito ad acquisire un certo sesto senso nell’ evitare ‘ste “botte” furibonde che ti  facevano vedere tra le altre, anche le costellazioni di Cassiopeia che pur essendo boreale, si sovrapponeva a Dorado che è notoriamente è australe. Il “potere” delle sberle del M.llo Zara!

Tutte le mattine la stessa solfa: “oh…cosa mi ci bevo oggi? Oggi….oggi. …si potrebbe …..ma no, va! Fammi un “ricco “ caffè, va!”

Tutte le mattine questa frase finché cominciai ad azzardare “Maresciallo…questa mattina decidiamo per un ricco caffé’”, conoscendo l’irrimediabile e congenita tirchieria dei Sottufficiali.

E subito mi ritraevo per evitare la poderosa e fulminea destra dello Zara.

Le giornate si susseguono sempre più fredde e grigie; viene fuori una novità: si faranno le ronde interne alla caserma e tutti a turno, senza esclusione, (a parte i laureati lecca – deretani), dovranno passarsi un paio d’ore durante la notte a girare per il luogo.

La sera che tocca a me (tre ronde notturne interne in tutto), il Sergente (anche qui la memoria non mi aiuta sul suo nome, capelli biondi quasi bianchi, penso sia semi-albino, ha gli occhi in due sottili fessure e sempre strette, ciglia quasi bianche, carnagione rosea da neonato, pochi capelli di un esagerato biondo nordico), mi sveglia alla due meno dieci e si girerà per la caserma sino alle quattro.

Il Sergente “albino” è un timidone che soffre.,suppongo, di questa sua particolarità fisica: si vede che la cosa gli pesa ma la “naja” lo sta facendo crescere e vedi che nel tempo prende coscienza del suo “potere” nei nostri confronti.

Nei confronti dei superiori in grado però si dimostra imbranato e timidissimo.

Però pure noi non è che fossimo “pastine” e per farci fare un qualche cosa, doveva mettercela tutta.

Quando viene a svegliarmi per la ronda, camerata al buio, vado a lavarmi la faccia per “rinvenire” e poi lo seguo fuori dalla camerata dalla parte della scala dei cessi: s’incammina con fare spedito lungo il corridoio centrale costituito dai pali in ferro.

Vedo che prende una traiettoria diagonale sulla destra verso le nere colonne di tubo di ferro, ma penso che all’ultimo centimetro devierà: invece no!

Si spiaccica su per la colonna, prende una pacca frontale tra naso, denti e fronte, di quelle con i controfiocchi, rompe una stanghetta degli occhiali e si mette ad ulurare dal dolore:

gli chiedo “ma c…o, non hai visto i pali…hai preso una botta che hai quasi divelto la colonna!?!?!”

Mi dice che ha problemi di vista; io immagino perché è albino, ma poi ci ripenso perché gli albini sono come i gatti: con il buio vedono meglio che con la luce; glielo sottolineo e questo imprecando, mi guarda male.

Ma seguita a tacere, poi impreca e mugugna frasi incomprensibili, si aggiusta alla bene e meglio gli occhiali e s’incammina verso la porta della camerata.

Il “fattaccio” non viene svelato e della sua vista non ne parliamo più.

Mi tengo a debita distanza…non si sa mai….

Il freddo come sempre, è aggressivo ed implacabile; si “ciacola”girellando qua e là, si controllano i cancelli delle armerie, si fa un giro negli uffici del Comando, mi siedo sulla poltrona del Comandante di Reggimento, insceno una “tragica” commediola proferendo con autorità “Sergente! Stia punito! La mando a Peschiera!”, “ ma vai a farti fottere!” risponde il Sergente; “ Sergente! Come si permette?!?! Io la distruggo!”, “ ma va’ in m..a de to mare, tuba stramaledeta…..”.

Oramai in guerra aperta con il freddo di Villa, gli confido che ho la chiave del Circolo: dopo trenta secondi siamo già distesi sui divani della sala del circolo a ronfare per un’oretta; passata l’oretta, un giro di “rappresentanza” affinché  l’Ufficiale di Picchetto ci veda, e poi un’altro round sino a fine corsa. Evviva il Circolo!

Partita di calcio della Nazionale: i Sottuff. decidono di vedersela alla TV che troneggia in sala: una cosa tira l’altra e s’improvvisa per gli spettatori, un spuntino di mezza sera.

Spignatta e spadella, metti a posto, lava e pulisci, va a finire che si tocca mezzanotte: arriva il Sergente Francioso (uomo eternamente affamato), Sottufficiale d’Ispezione e la butta la: “non è che magari tra una cosa e l’altra, sei potrebbero buttar su “du’ “ spaghi alla Carbonara?”

Ci guardiamo in faccia, l’ora è tarda, il nostro ventenne stomaco è sempre ricettivo, la pancetta “affumicata  - stufata” c’è, uova non ne parliamo…..zac….acqua sul fuoco e giù a preparare il tutto ed in onore del detto latino “melius abundare quam deficere -  meglio abbondare che scarseggiare”,  letteralmente raddoppiamo le dosi ed i pesi: ne esce una carbonara da dieci persone:

Stiamo scolando la pasta, quando entra con occhio indagatore l’Ufficiale di Picchetto (tra l’altro della nostra Mortai), chiede informazioni su questa estemporanea attività notturna e con fare furbetto si cala a capotavola: già in cinque!

Il Capoposto (anche questo della Mortai), viene a cercare l’Ufficiale di Picchetto per chissà cosa, gira che ti rigira ed anche quello si siede: e sei!

Attacchiamo con veementi forchettate i piatti stracolmi ed a mezzo della “battaglia dello spaghetto” supportata da capienti “boccali” di rosso del Friuli (comunque di molto inferiore dalla produzione dei pregiati vini di Nimis, ma un comune e banale Merlot della zona che pur non grattava per niente la glottide), stiamo portando a termine la “furibonda lotta” tra risate e sana goliardia cameratesca e…. si apre di colpo la porta della cucina e con occhio fulminante entra come un primo attore, il Capitano  d’Ispezione (questo non della Mortai, parca vacca!), che o era Frendo o Mineo (oh…gli anni passano e certi particolari sfumano…), e con lo sguardo vitreo ci congela e noi rimaniamo impietriti con la forchetta a mezz’aria.

Tutti rossi e tremebondi (più l’Uff. e il Sottuff., che noi… per la verità), “ma sa … c’era la partita….è avanzata della Carbonara….fuori fa freddo….tre a uno per l’Italia…..si era detto che dovevano venire anche altri Marescialli…”

Il Capitano ci squadra e dice “ ho vi mando tutti a Peschiera con alternativa Gaeta…e sarebbe un’ignominia per il Btg. …..oppure devo accodarmi a questa banda di degenerati”!

Non è rimasto uno, dico uno spaghetto per il Capitano d’Ispezione!

“No ghe ne più Sior Capitano” , proferisce con la classica cadenza sottomarinante, il timido per l’occasione,  Boscolo!

M’insinuo io per la prima volta, visto che la mia presenza era sempre sottotono: “però volendo…l’acqua è ancora calda, ci mette cinque minuti a bollire…il “desfrito” e la pancetta da scaltrire in due minuti si prepara….le uova (di gallina – n.d.r.), basta romperle come ultimo tocco…..in dieci minuti si fa replica….”

Tutti si guardano, Francioso l’uomo senza sazietà, con deferenza e contegno subalterno nei confronti del Capitano, dice “ beh… però sarebbe un’idea...”, il Capitano lo fredda con un'occhiata fulminante, poi guarda l’Ufficiale di Picchetto ed insinua “Lei si fa un’altro piatto?”; l’altro non osa neanche guardalo negli occhi ed annuisce silenziosamente: “ordine superiore” fa il Capitano”, e sorride finalmente  “ e vada per un’altra andata!”

Si tira tutti un sospiro di sollievo e avanti allo “sbarco”, anzi alla Carbonara!

Sicchè per non farvela poi tanto lunga, va  a finire che alle due e mezza di notte, in cucina del Circolo, trovansi: Il Capitano d’Ispezione, l’Ufficiale di Picchetto, il Capoposto, il Sergente d’Ispezione, e noi addetti alle cibarie! Ci mancava il Comandante di Battaglione e s’era apposto!

Memorabile nottata che finì tra frizzi e lazzi e dove poi ogni uno s’incamminò satollo e barcollante, alle rispettive destinazioni notturne.

Dopo una settimana ( il fatto non ha collegamento con la serata a base di Carbonara), un certo Maresciallo Mannino, vice del responsabile del Circolo, fa una specie d’inventario e scopre (dice lui), che siamo in rosso (cioè, mancano all’appello), ben dieci “gabbie” di bottiglioni da due litri dell’ “incolpevole” rosso (perdonatemi la ripetizione), tappo corona da tavola che veniva normalmente usato per i pasti.

Viene fuori il pandemonio: veniamo interrogati dal M.M. che ci sottopone ad un confronto all’americana: non ne esce un ragno dal buco; il Tenente Graziani interroga noi due (io e certo Massaro) della Mortai, spieghiamo che probabilmente i responsabili del Circolo stiano dando via di testa e per di più sottolineiamo che sono anche accuse poco simpatiche e fan girar i marroni: il Tenente è salomonico e ci rincuora cosicché per la prima volta odo il detto “male non fare, paura non avere”.

Finiamo uno per uno, davanti all’Aiutante Maggiore Tenente Zitter: il Signor Zitter non ci attacca in maniera plateale ma insiste sull’ammanco.

A me stè cose fanno andare la pressione a trecento e i cosiddetti incominciano a girare ad elica: con correttezza perché l’uomo mi è simpatico e non mi dispiace come Ufficiale, preciso: “guardi Signor Tenente che io mi considero una persona onesta al di la della media ovvero onesta senza se e senza ma (come usano dire adesso i politici alla TV), qualche “ombra” sarà anche stata bevuta in più, un litro…due litri …, però da qui a far sparire nel nulla dieci gabbie di bottiglioni da due litri ovvero dodici per due per dieci equivale a duecentoquaranta litri di vino, scusi….ma neanche se avessimo preso una ciucca furibonda ogni giorno non ci si può arrivare;  tuttavia direi che se i Signori Marescialli hanno uno straccio di prova in mano che siamo stati noi (o sono stato io), che la dicano, sennò non mi sembra giusto continuare con sta’ storia; mi permetta di dirle che se sarò punito per questa cosa, durante il servizio militare non potrò far niente, ma le assicuro che appena ridiventato civile, addiverrò a vie legali tramite il mio legale che purtroppo per i miei casi della vita oramai e a “contratto” per altre cose”

Il Tenente Zitter che io ho sempre reputato un brav’uomo, mi dice “ ma va… dai….ci parlo io con il M.llo Mannino…vedrai che va tutto a posto….ma anche questi…. cosa rompono con il vino?….E caspita…guarda se non ci sono altre cose per diventare matti!”

Me ne vado fuori dell’ufficio con perfetto saluto e dietrofront con piroetta, e di quella storia in seguito, non se ne sentirà più parlare.

Il tempo passa  ed io al circolo sono insofferente: il clima comincia a assumere toni meno rigidi; sento che dovrò andarmene dal quel luogo di caffè e di brodini, di cerate al pavimento e di pulitura di cessi.

E poi si comincia a vociferare di “Operazione Down Clear” ed altre incredibili  avventure da vero “Guerriero” lagunare, per cui ci rimugino sopra e decido: appena posso me ne torno a fare il Lagunare effettivo!

La botta finale e decisiva, me la da il Capitano Canfora, che Dio l’abbia in gloria, colerico e urlante Ufficiale della Vecchia Guardia: sono fuori del Circolo e sto scopando il raccoglitore di acque (scolina forse?), che convoglia le acque nei tombini attorno al marciapiede di ciottoli incastrati: ‘sto convogliatore e in liscio di cemento e i sassi del viale della piazza d’armi ci vanno a finire sopra e tra acqua, pioggia e pedate, ‘sti sassetti, essendo più piccoli delle feritoie del tombino, prima o poi ci vanno a finir dentro.

Non che fossi in società con il Ministero della Difesa, ma come sempre cerco di fare anche se il materiale non è mio, vedo di comportarmi correttamente.
Per cui mi adopero con la punta della scopa, di farne un mucchietto da raccogliere e ributtare sul viale.

Eseguo l’operazione con metodo, attenzione e perizia, sicchè riesco a guidare con la scopa, sasso per sasso, affinché non cada nel tombino, al mucchietto in attesa di esser sparso ancora sul viale.

Mi renderò conto poi che l’operazione come la portavo avanti io, se vista senza conoscerne il contesto e da lontano, poteva sembrare oltremodo leziosa ovvero una vera commedia per far passare il tempo; ma così non era.

Però il Capitano Canfora che stava chiacchierando con altro Ufficiale ad una cinquantina di metri, interpretò questa mia precisione, nella maniera negativa, incominciò a fissarmi insistentemente, e poi si proiettò con fare belluino nella mia direzione.

“Lagunare, ma che c…o fai; presentati….ma mi stai pigliando “pa u culo”, stai punito, ma guarda cosa mi tocca di vedere, ma che ci fai i ricami con la scopa….coglione, testa di c…o…..”

Mi sentii offeso e tentai di replicare e spiegare che il mio intento era positivo e non intendevo certo batter la fiacca e quindi profusi un timido “scusi Signor Capitano…”

Non l’avessi mai fatto: vedo l’uomo cambiare di colore attraversando tutte le gradazioni, dal rosa incarnato normale, al rosso granata e forse anche al carminio; incomincia ad urlare come un tarantolato, intravedo possibilità d'infarto del miocardio e penso che lo sentiranno sino alla Nembo (dopo le sbarre del treno), mi arrivano spruzzi di saliva in viso tanto è sconvolto ed incazzato; non so che pesci pigliare e rimango come una statua senza proferir parola.

Dopo un cinque minuti di una farsa indegna, mi ammolla la solita formula “stai punito” e se ne va’.

Testa di c…o a me, ma testa di c…o a te “rimba” penso io; rientro  al Circolo, sbatto la scopa in un angolo e stabilisco “affan… a tutti, io qui non ci resto più”.

So che il Canfora da molti anni se ne è involato nel mondo dei più, dovrei dimenticare quella cazzata, però vi giuro, non ne abbi mai più stima  e anzi da quella volta lo considerai sempre negativamente. Anche quando seppi che non era più con noi, la pietà umana per una persona che non c’è  più dovrebbe aver il sopravvento, ma non riuscii più a rivedere nella mia mente, in quell'atteggiamnetio nei miei confronti, un comportamento consono ad un buon Ufficiale.

Ora finisco qui e la prossima puntata parliamo sbarchi, “Down  Clear” a Bibione,  Baffi in arrivo, campi estivi e varie.

A Tutti quelli che mi leggono, fuorché a coloro che non stimo, (loro lo sanno chi sono e poi sono sicuro che durante la naja erano sicuramente imboscati e Dio dall’alto li ha visti e quindi vede e provvede), un caloroso,

San Marco!

Lagunare Dino Doveri.

 

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