8) di nuovo a fiume

 

29 gennaio 2008

 

Risveglio duro, dopo una serata a dir poco vivace. Le parole sentite per prime sono state. "4 caffè grazie" - "4 caffè, grazie" - "4 caffè, grazie" - "meglio".
Il ritorno sulla pista, che ieri ci ha visti protagonisti, procede con calma. La distanza è poca e non abbiamo fretta. Ormai si è deciso di fare un giro sulle isole istro-dalmate sud, fino a Zara e dintorni. L'argomento scivola sul nome da dare al nostro fido velivolo. Qualcuno propone "ronzinante" di donchisciottesca memoria "siamo o non siamo un po' fuori a fare certe cose?". Venezia ritorna di prepotenza con un "El Doge". Alessandro tace, forse si sente in minoranza. Lui è triestino solo di adozione; è nato e cresciuto sui nostri monti e qualcosa tipo "stella alpina" non passerebbe.
Mi viene in mente casa e la zona ove abito. Tutte le vie sono intestate a volontari triestini della prima guerra, quasi tutti giovani studenti irredentisti arruolati nell'esercito o nella marina italiana. La più povera decorazione ottenuta sul campo dell'onore è una medaglia d'argento. La più vicina è via Scipio Slataper, scrittore-poeta e Medaglia d'Oro. Ecco un bel nome, pieno, virtuoso, forte, romano come la città. Solo i Romani hanno portato pace nel territorio ed hanno difeso la nascente gemma del golfo. E poi, il Parlamento ha sdoganato finalmente l'Inno Nazionale, e tutti a lamentarsi se non si canta a squarciagola in ogni occasione. Il testo ci ricorda che siamo figli di Scipio, detto l'Africano, quello che ci ha salvati da Annibale. Ha fatto molto di più. Le Legioni, dopo il suo comando, avranno una nuova strategia e tattica d'impiego - va detto: copiata proprio da Annibale - che le renderanno per molto tempo imbattibili. Si aggiunga che l'ultimo lavoro di Scipio è stato sistemare un affaruccio con la Grecia, che spinta da un tirannucolo cercava di venire a spappolare in Italia (aveva Annibale come fido consigliere militare - peccato che il signor Antioco non lo ascoltasse). La battaglia decisiva si svolse tra la Macedonia e l'Epiro, ovvero la zona del ponte di Perati e Iohannina, come nella seconda guerra. Con, allora, ben altro esito.
Mi piace la mia spiegazione e pongo sul piatto "Scipio", ma non passa. Incalzo: sentite cosa scrive Scipio Slataper ne "Il mio Carso".

«Se voi venite a Trieste io vi condurrò per la marina, lungo i moli quadrati e bianchi nel mare, e vi mostrerò le tre nuove dighe nel vallon di Muggia, fisse nell'onde, confini della tempesta, costruite su enormi blocchi di calcare cementato. Per il nuovo porto minammo e frantumammo una montagna intera. Mesi e mesi di furibondi squarciamenti che rintronavano l'orizzonte e s'abbattevano come il terremoto sulle nostre case piene di finestre. E piccoli vaporini, un po' superbi del loro pennacchio di fumo, facevan rigar dritte lunghe file di maone tutte pancia, e dalla strada napoleonica si vedeva sfolgorar nel mare i carichi di pietra scintillante. Quest'è il quarto porto di Trieste. La storia di Trieste è nei suoi porti. Noi eravamo una piccola darsena di pescatori pirati e sapemmo servirci di Roma, servirci dell'Austria e resistere e lottare finché Venezia andò giù. Ora, l'Adriatico è nostro».

Non si commuovono. Comunque esce una domanda: "come mai non abbiamo visto le dighe del vallone?" Risposta difficile, per cui mi defilo. Ma vi assicuro che le dighe sono ancora al loro posto e che durante la prima guerra erano il primo scudo alle navi ancorate nel vallone; il secondo era la rete tesa tra la testa della diga più grande, detta "foranea" e la terraferma. Un'altra copriva il lato verso l'arsenale. Luigi Rizzo ha faticato non poco a superarle.
Mi sorge un dubbio "non è che avete paura del politically correct?". "Ragazzi, amici, commilitoni, non sarete come gli americani". "Diciamola sporca: quelli sono proprio dei pirla. Nel gioco del volo virtuale esiste anche la parte militare. Allora è usuale riprodurre le livree degli aerei dei più grandi piloti, degli eroi di guerra, prima e seconda. Orbene, poffarbacco, 'sti furbi, dopo aver lavorato magari anni per trovare la documentazione fotografica e girato musei, non, dico NON vogliono dipingere la svastica sulla coda degli aerei tedeschi e non dipingono le vittorie sul muso, come d'abitudine si faceva, per i loro eroi. Hanno tanta paura di offendere qualcuno. Poi nei forum scrivono «ieri sera ho buttato giù un sacco di nazi o di nippo», con assoluta ineleganza. Io gioco di tanto in tanto come pilota militare e non trovo di meglio che difendere la mia città dai bombardamenti alleati. Quale volete sia l'emblema sulle ali, un'oca selvaggia? Ci sono gli emblemi della Repubblica di Salò, perché quelli erano i piloti italiani che ci difendevano". Pausa. "Sì, chi ficca la testa nel sacco e finge di essere un'anima santa è proprio più pericoloso di chi ha il coraggio delle proprie idee".
Nel silenzio che segue - ma che fanno? dormono? - comprendo che "El Doge" sarà il nome della nostra casa volante. Non è male. Ma sempre politically correct: i Dogi ne hanno fatte di azioni indegne. Basta pensare alla Crociata "deviata" - così la indicano gli storici. Verrà il momento di ricordare.
Poiché bisogna pur arrivare a Tessera e serve anche tener sveglio l'uomo al volante, sempre Dino, racconto del mancato pilota, mio papà. Dopo il corso per marinaio a Trapani (il posto d'Italia più lontano da Trieste -1738 km), vedendo che l'Arma Aerea cercava volontari piloti, si offrì. Superò tutti i test, ma l'entrata in guerra dell'Italia bruciò le speranze di volare. Meglio uno specialista pronto, che un pilota da fare, gli fu detto. Così il sottocapo torpediniere Vittorio Tedeschi rimase a bordo della Regia Nave Libra, per essere sbarcato a Pola prima dell'otto settembre 1943. La Libra era in testa al convoglio della flotta italiana che dirigeva - il giorno 9 settembre 1943 - verso mari "alleati". Non tutte le navi arrivarono a Malta (e qualcuna andò a Suda, isola di Creta, per non arrendersi; di certo i Tedeschi affondarono la Roma, gioiello della Marina e un delle tante navi da guerra costruite nell'Arsenale Triestino, cominciando dalle grandi austriache. Mio papà non ha mai saputo la sorte della "sua" nave. Io ho trovato storie di guerra in internet, perché oltre a piccole cose, di solito allegre, non ha mai voluto raccontare quello che ha passato assieme ai commilitoni. Eppure la nave ha partecipato allo sbarco a Candia (Creta), ha combattuto a Capo Matapan, si è fatta il Mediterraneo e l'Egeo in lungo e in largo. Ho avuto la gioia di calpestare la tolda, sotto la guida di papà. Nel 1954 Trieste tornava all'Italia e gli alleati salpavano per migliori lidi. La città era sconvolta dal turbamento, tra gioia, attesa, speranze. I militari italiani erano presi d'assalto e spogliati di mostrine, stellette. Anch'io avevo la mia brava collezione, ricca di piume di bersagliere. Con l'Esercito era arrivata anche la Marina. Una delle navi ancorate allo storico molo "Audace" era la Libra. Mia nonna voleva abbracciarla e continuava a dire "ha portato a casa mio figlio". In realtà lo diceva un poco in triestino ed un poco in dialetto friulano, ma pochi dei lettori comprenderebbero. Salire a bordo diventava impellente, ma la nave non era visitabile. La sentinella alla passerella era gentile e irremovibile. Poi ha scorto appuntato sul mio cappotto un tondino di plastica trasparente, con incollato un cerchio dorato sormonatato da una corona. Nel mezzo del cerchio la sagoma di una nave e la scritta Regia Nave Libra. Ha chiamato un ufficiale... il resto è un momento indimenticabile, con papà che segnalava tutti i cambiamenti subiti nel dopoguerra: "manca il cannone da 100 a poppa, i lanciabombe di profondità sono diversi, i tubi lanciasiluri non si trovano...". Quelli erano gli attrezzi del mestiere durante un'intera campagna. E, anche se non ne era felice per motivi profondamente umani, gli avevano guadagnato tre croci al valore.
Nessuno la pone, ma rispondo a una domanda tacita. Com'è che un marinaio italiano, a Pola, congedato il 16 settembre 1943 ha potuto tornare tranquillamente a casa? Bene, tranquillamente no, qualche patema c'è stato. A farla breve, il comando del litorale adriatico era in mano ai Tedeschi della Wermacht, l'esercito "esercito", non ai pazzi delle S.S. Quindi, a coloro che abitavano vicino e potevano tentare l'impresa, hanno offerto di andarsene, girando al testa. Arrivato a Trieste è stato subito impiegato nel personale viaggiante delle ferrovie, salvando così pelle. A chi rientrava erano offerte tre possibilità: arruolarsi tra i tedeschi; arruolarsi con Salò; il campo punitivo di lavoro in Germania. Oppure nascondersi nei boschi del monfalconese e sperare che la guerra finisca presto, ma prima bisognava arrivarci e non era affatto facile.
La BMW è comoda; mi assopisco anch'io, lasciando Dino al suo compito: portarci a destinazione sani e salvi. Alla fine ci siamo. Per pudore tralascio la scena della riconsegna della vettura alle giapponesi. Diciamo che "Dino san" - san Dino è improponibile - si è superato.

Diario di bordo
Appena saliti mi tocca prendere i comandi; gli altri piloti sono "indisposti", sembrano giovani spose reticenti. Facciamo al cambio, ora guido io e Dino parla. E parla bene. Di Fiume abbiamo trascurato parte della storia. Parla al presente, come se tornasse indietro nel tempo, al primo arrivo e in fondo parla per se stesso.
Dice che sotto c’è la Città di Fiume.
Al Dino si drizzano subito le orecchie perché Fiume è posta nella sua mente, a guisa di epopea e leggenda.
Tanto è bastato al nominare di cotanto luogo che subito: «qui non si scherza! Fiume, D’annunzio, Rizzo, i Mas; tutta gente e luoghi che hanno fatto la Storia. Quello che mi attizza di più - attacca il "navigator", è Gabriele "il Vate" D’annunzio».
Boffonchio qualcosa come "tra "vati" ci si intende", ma la battuta cade nel vuoto.
«Sarà perché rimbambito per una "cotta" nei confronti di una morettina, durante le ore d’italiano continuavo a scavare tra le righe de "La pioggia nel pineto" bellissima poesia del Poeta Guerriero, ed ascoltare estasiato le elucubrazioni che il professore di letteratura non si faceva certo pregare di produrre a raffica. La "mia" Ermione e quella di D’annunzio si confondevano in una figura idealizzata e metafisica. Mi successe infatti che, durante una pioggerella marzolina tra i tamerici, - "Piove sulle tamerici salmastre ed arse" -, si verificò un agognato scambio di casti baci da innamorati imberbi e pur tuttavia determinati».
«Capiterò poi, dopo qualche anno, per caso al Vittoriale di Gardone e mi ci passerò dentro una giornata intera entusiasmato dalle testimonianze dell’uomo che vi aveva soggiornato. La villa di D’Annunzio mi rapì letteralmente; allora erano visitabili anche le stanze cosiddette "private" ed era visibile e quindi ammirabile tutta quella incredibile raccolta di oggetti, piazzati nei posti più impensati. Ogni oggetto un significato, una riga poetica, un ricordo di guerra. Egli esplicava in un motto che si contraddice: "Io ho quel che ho donato!". L’Eroe di Fiume mi prende - anche - perché è legato alla Eleonora Duse, la grande attrice otto/novecentesca, che pur se nata a Vigevano, è di famiglia clodiense, ed il fatto di Vigevano luogo natale assegnato all’artista, per i chioggiotti è puramente casuale ovvero, non conta, essendo ella nata durante una tourneeè teatrale a cui partecipava la madre. Talchè e guarda caso, esiste a Lei addirittura titolata un "calle" della mia città di un tempo: Calle Duse, e ben reale tutt’ora. A qualche centinaia di metri da dove era la mia casa».
Ma lasciamo la Duse al giusto riposo ed andiamo al D’Annunzio e la Città di Fiume.
«Certo disquisire su l’Impresa Fiumana, non è facile. Da una parte si dava per scontato che Fiume fosse, dopo la vittoria italiana del 15/18, da ricondurre all’Italia per motivi etnici; altri ci assicurano che la popolazione era mezza croata e mezza d’origine italica. Da parte iugoslava si soggiunge che il sobborgo operaio di Fiume, la località di Sussak era forte di oltre 15.000 croati, e quindi faceva propendere la maggioranza in etnia croata. Sta di fatto che il Governo italiano preso da problemi economici del dopo guerra, era ben contento che la popolazione avesse l’attenzione rivolta alla questione di Fiume e glissasse sulle condizioni che poi più avanti portarono l’ascesa del fascismo; quindi alla fine il D’Annunzio non ebbe né un no e né un si: forse ebbe un "so" od un "ni". Classicamente e tradizionalmente italianeggiante».
«Ma non è questo il punto - dice il Dino - ma è la figura carismatica del condottiero che mi affascina».
«Dopo il primo momento aggregativo di Trieste, D’Annuzio si piazza a Ronchi (che diverrà per l’appunto "Ronchi dei Legionari"), e nel 1919 se ne parte alla volta di Fiume con poco più di 200 uomini. Certo l’uomo era di grande magnetismo e lo dimostra il fatto che strada facendo si uniscono al drappello, gli Arditi capitanati da Host Venturi, capo delle organizzazioni irredentiste dell’Istria e della Dalmazia, la cosiddetta "Legione Fiumana", uniti ai Granatieri di Sardegna che erano stati smobilitati in quei giorni da Fiume. Il gruppo diventa cospicuo e sarà ancora ingrossato strada facendo, dagli Arditi del Generale Zoppi e dal resto dei Granatieri di Sardegna ed una compagnia di Fanteria, queste ultime in attesa di eventi.
Alle porte di Fiume, Il "Poeta Soldato" si presenta con la bellezza di oltre duemila uomini ed il Generale Pittaluga che era colà per difendere la città, invece, abbracciò il D’Annuzio dopo la famosa frase del Poeta "Lei non ha che a far tirare su di me Generale!", detta scostandosi il pastrano e mettendo ben in mostra la medaglia d’oro e una sfilza di decorazioni che coprivano tutta lo sparato della giubba.
Sappiamo poi come andò a finire e infatti fa meraviglia che dopo una sola cannonata di una corazzata che colpì il palazzo dove abitava il Comandante, le truppe regolari entrarono in fiume durante il famoso "Natale di sangue" dove persero la vita all’incirca una cinquantina di Legionari. Infatti gli "occupanti" se ne andarono alla chetichella ed indisturbati; D’Annunzio si trattenne ancora a Fiume per qualche tempo, ma poi pure Lui, insalutato ospite, levò le ancore senza che le truppe italiane gli torcessero un capello: Mussolini pur da una parte deprecando la "conquista", per l’altra assegnava una chiara connotazione nazionalistica a quello che definirà "un colpo di testa" e per cui confermava benevolmente che l’impresa di aver sottratto la città fiumana alle mira slave, era di grande merito del Corpo Legionario di D’Annunzio».
«Certo - dice il Dino - ci si domanda chi o che cosa glielo facesse fare al D’Annunzio, di escogitare tutte ‘ste trovate tipo il "Volo su Vienna" o la "Beffa di Buccari", altre imprese da affiancare a quella di Fiume. Certi autori assicurano che era "matto" di suo, altri assicurano che il protagonismo in lui era una molla incontrollabile; alcuni seri studiosi invece, ed è probabile, stabiliscono che D’Annunzio si ammalò di una patologia psichica fino a quei tempi mai sospettata: il "reducismo"».
Il popolo a bordo improvvisamente si sveglia e chiede lumi. Il Dino allora, si aggancia alla notizia apparsa qualche settimana fa sui giornali, “si evince da studi americani, che in USA si riscontra frequentemente che i reduci dei vari interventi in Afghanistan, Iraq, le Desert Storm, il Viet Nam e via fino alla Korea, non riescono più a ritornare a vivere in maniera normale ovvero senza quell’atmosfera adrenalinica che fornisce la guerra". Questa sarebbe la cosiddetta “sindrome da reducismo”.
Che il D’Annunzio ne fosse contagiato? “E gira gira l’elica, romba il motor...”
E Rizzo dei Mas? Ne parliamo con calma, dopo...

Nel contempo mi curo la foschia del decollo (12.36) punto sul mare e vado dritto sull'Istria. Nebbia infernale, quella che o caschi sotto o c'è un muro; "soto l’acqua podarìa anca finire o sinò un muro alto alsarse" - secondo il Dino. E piove, pure - e noi viaggiamo nelle nubi cariche d'acqua a poco più di 600 metri sul mare. Raggiungiamo la penisola istriana. Non si vede chiaro, ma sotto, a 300 m il terreno si scorge, quindi si può atterrare. Contatto la torre e mi danno l'ok. Il primo passaggio è del tutto errato - gli strumenti non sono il mio forte (13.22). Eseguo il "going on the round", ovvero mi faccio un giro finché scorgo le rosse luci di testa pista. Sono ben allineato e tento una picchiata in piena (arrivo alto). Siamo contro mano rispetto le procedure e la luce non vuole diventare bianca; alla fine a quelli del controllo cedono i nervi e dal rosso le luci passano al bianco. Si atterra; parcheggio (13.38); è andata. Le isole per la prossima volta. Certo se il tempo continua così avremo molti tempi morti. Fa troppo caldo e la nebbia impera. Abbiamo atteso l'inverno e i mesi più freddi proprio per evitare il fenomeno. Inoltre contavamo anche su grandi nevicate, che lasciano molto visibili strade e fiumi dall'alto. Invece il paesaggio è spoglio e di colore uniforme giallo-rosso-mattone. Il primo febbraio comincia la settimana di carnevale, occorre organizzarsi. Con questo splendido pensiero andiamo a pranzo.
Divertitevi Signori Lagunari, divertitevi. È un buon consiglio.

 

Foschia a Tessera

 

Nuvole e pioggia

 

Costa e terra d'Istria

 

Luce bianca

 

Siamo senza ombrello...

 

 

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